frase adorno

Educare dopo Auschwitz significa non accettare la più piccola manifestazione del razzismo né la più piccola discriminazione, significa non contemplare il passato ma interrogarlo alla luce del presente. T.Adorno

"Chaya's memories"

LA TRADUZIONE DI THE FATE OF HOLOCAUST MEMORIES
DI CHAYA H. ROTH





L’autrice
Chaya H. Roth è una sopravvissuta dell'Olocausto.
Nasce a Berlino, ma all'età di otto anni è costretta a scappare con la mamma e con la sorella diretta verso il Belgio. Siamo nel 1939.
Il papà era stato deportato nel campo di concentramento di Sachsenhausen.
La loro colpa? Le origini ebree, la non appartenenza alla razza ariana, quella pura, perfetta, da difendere ad ogni costo, poco importa se a rimetterci sarebbero stati anche bambini, donne e uomini innocenti, grandi lavoratori e buoni cittadini.
A questa fuga iniziale ne seguono altre, prima verso e la Francia e poi, con un lungo ed estenuante viaggio a piedi attraverso le Alpi, in Italia.
La famiglia verrà liberata solo nel 1944 a Roma e successivamente le figlie si trasferiranno in Israele.
Nel 1960, a poco più di vent'anni, Chaya consegue un dottorato di ricerca in psicologia presso l'università di Chicago.
E' attualmente docente all'Università dell’ Illinois di Chicago nel dipartimento di psichiatria. È sposata con Walter Roth, avvocato e autore di alcuni libri, incentrati sulla storia degli ebrei a Chicago. Hanno tre figli e sette nipoti.


Il libro
The Fate of Holocaust Memories raccoglie le testimonianze di quattro generazioni (la madre, l’autrice con la sorella e i rispettivi mariti, i figli e i nipoti) sul dramma dell’Olocausto.
L’opera è divisa in tre parti. Nella prima la madre, Hannah, ricorda la vita familiare durante la Prima Guerra Mondiale e fino all’elezione di Hitler alla cancelleria; poi, con le figlie racconta l’esperienza della persecuzione e dei viaggi da loro affrontati dal 1939 al 1944. Nella seconda parte l’autrice parla del “processo di trasmissione” dei loro ricordi ai figli, culminato in un viaggio in Europa necessario per riuscire a far comprendere alla nuova generazione la drammaticità dell’Olocausto, ma anche gli aspetti positivi della propria infanzia. La terza parte raccoglie le interviste di una giornalista ai componenti della famiglia sul significato dei propri ricordi e sul modo in cui essi intendono trasmettere le proprie memorie ai discendenti.
Mentre la maggior parte della letteratura sull’argomento tende ad inserire adulti e bambini sopravvissuti in un’unica categoria, questo libro distingue nettamente il modo di percepire la realtà delle figlie da quello madre. Ciò è dimostrato dal fatto che spesso i racconti di uno stesso evento presentano delle incongruenze.
L’aspetto che abbiamo trovato più interessante è sicuramente quello del “passaggio di testimone” alle generazioni successive, che è uno dei più importanti scopi del libro. Solitamente, infatti, si pensa alla Shoah in sé e non alle conseguenze di essa a lungo termine, quelle di chi è sopravvissuto e, oltre a dover convivere ogni giorno con il dolore del ricordo, ha anche il difficile compito di testimoniare la sua tragica esperienza. Tuttavia, come emerge dal libro, questo non genera necessariamente rabbia e odio, ma anche speranza e fiducia nel futuro.


Studiare non è solo…
Studiare non vuol dire necessariamente trascorrere ore ed ore su libri polverosi, lottando contro la noia e la sensazione di soffocamento che talvolta si prova. E non si impara mai del tutto, se accanto alle opinioni dei grandi personaggi della storia non si lascia un po' di spazio alle proprie idee, riflessioni, domande.
Questo noi, alunni del quarto anno del liceo linguistico di Saluzzo, lo abbiamo capito bene.
È attraverso testimonianze, lezioni interattive, laboratori teatrali, una visita al centro ebraico di Torino e l’incontro con Beppe Segre, sopravvissuto all'ira antisemita, che ci siamo avvicinati ad uno dei periodi più oscuri che la storia abbia mai conosciuto: la strage degli ebrei durante la seconda guerra mondiale.
Abbiamo poi avuto la fortuna di partecipare ad un grande progetto legato a questo argomento, ovvero alla traduzione del libro The Fate of Holocaust Memory, scritto da Chaya H. Roth.
Tutto è partito da uno scambio virtuale tra la nostra scuola, nella persona della professoressa Silvana Greco, e il corso di Storia tenuto dalla professoressa Susan Shapiro della Lab School presso l’università di Chicago, a cui partecipa anche l’autrice del libro.
Quest’ attività si è rivelata più interessante e coinvolgente di quanto avremmo potuto credere. Per la prima volta, infatti, lo studio e gli sforzi che nel corso degli anni abbiamo dedicato alla lingua inglese si sono rivelati utili per qualcosa di concreto, a servizio di tutti gli italiani interessati all'esperienza di questa donna, che ancora bambina ha dovuto fare i conti con il lato peggiore della razza umana, con l'odio ingiustificato nei confronti di tanti innocenti come lei, con la violenza e la paura.
È grazie a questo lavoro, inoltre, che ci siamo avvicinati alla lettura in lingua straniera che, nonostante le nostre comprensibili difficoltà iniziali, si è rivelata un utile strumento di crescita, sia a livello linguistico sia personale.
Speriamo, nel nostro piccolo, di contribuire alla diffusione di questa testimonianza toccante, perché non venga dimenticata ma sfruttata dalle persone come fonte preziosa per approfondire questo argomento, che talvolta si vorrebbe dimenticare, invece è dovere ricordare sempre.
È questo, secondo noi, il senso di questa nostra attività; è compito di ognuno di noi mettere a tacere i pregiudizi sul nascere, se non negli altri almeno in noi stessi, e lottare per fermare ogni ingiustizia.
E non mi riferisco soltanto alle grandi stragi. Ogni volta che viene permessa una cattiveria, una risata maligna, ogni volta che una persona viene trattata non in quanto individuo, ma in relazione al popolo a cui appartiene, alle idee che condivide, al sogno che coltiva, la nostra società compie un passo verso il suo declino.
Ed il limite si può riconoscere nettamente solo una volta superato, quando la possibilità di tornare indietro è sfumata e rimane solo il rimorso.
Per questo sono fondamentali i progetti che ci vengono proposti. Perché una superficiale analisi di temi importanti come questi fatta senza passione e senza cervello sarebbe totalmente inutile: noi siamo i giovani, è a noi che il mondo verrà affidato un giorno.
Vogliamo pensare con ottimismo, vogliamo credere in un futuro di integrazione, solidarietà, ribellione, quando necessaria, e coraggio.


Alice Barale e Sophia Brugiafreddo




La nostra traduzione di The Fate of Holocaust memories
a cura di Graziella Foglino e Giovanna De Chiesa
CAPITOLO UNO
LE MEMORIE DI HANNAH

Quando decisi di scrivere la storia di mia madre, la invitai a passare il weekend insieme a me in un piccolo resort fuori città. «Ti piacerebbe che scrivessi la storia della tua vita?», le chiesi.

«E ce andremmo via noi due sole, senza nessun altro?», rispose Hannah «e che cosa racconterai della mia storia?».
Il mattino dopo la prima notte al resort, a colazione, Hannah mi salutò calorosamente e mi consegnò un plico di pagine gialle, dicendomi «Questo è quello che ho scritto per te, è l’inizio delle mie memorie. Ho scritto diciotto pagine la scorsa notte, così puoi iniziare il tuo libro».


Memorie di Hannah Diller dal 1933 fino a dopo la Guerra
[Le prime diciotto pagine furono scritte a mano in tedesco nell’ottobre 1982 e in seguito tradotte da me (Chaya).]
Per noi tutto iniziò nel 1933
Per noi, tutto iniziò nel marzo 1933, quando le Sturmabteilung(SA) (Squadre d’Assalto) naziste entrarono in azione a Berlino. Le SA si scatenarono contro i comunisti e gli Ebrei, commettendo brutalità indescrivibili sui giovani: aggredirono selvaggiamente sia Ebrei che Cristiani sospettati di attività anti-naziste e, siccome molti Ebrei erano anche simpatizzanti della sinistra, furono particolarmente spietati nei loro confronti, sembravano torturarli con gusto sadico. Un giorno di marzo o aprile, non ricordo più, entrarono nel nostro palazzo, presero un ragazzo Ebreo ortodosso e lo portarono ad Horst-Wessel Platz, in un edificio che un tempo fungeva da sede delle riunioni dei membri del partito comunista. A quel tempo era stato riconvertito in luogo di raccolta di comunisti ed Ebrei e di tutti coloro che rappresentavano una minaccia per il terzo Reich. Qui venivano interrogati e torturati, io stessa ho avuto modo di vedere con i miei occhi il risultato di quegli interrogatori. Ho visto di che cosa erano capaci quelle bestie.
I Tannembaums erano nostri vicini di casa, vivevano al primo piano, due piani sotto di noi. Il figlio dei Tannembaums, un bel ragazzo, era un simpatizzante della sinistra. Dopo l’ interrogatorio alla Horst-Wessel Platz, venne riportato a casa sanguinante e con molte ossa rotte. Sua madre dovette portarlo quasi di peso su per le scale. Temendo che le SA si sarebbero presto fatte di nuovo vive, ci chiese di lasciarlo a casa da noi. Quando lo vidi rimasi sconvolta: era aggrappato alle spalle di sua madre con i piedi che sfioravano appena il pavimento, era stato picchiato fino ad essere ridotto ad una polpa informe. Gli usciva sangue dalla bocca e dal naso, aveva lividi neri e blu per le botte ricevute e gli avevano strappato le unghie delle dita e dei piedi. Mai avrei immaginato che si potesse fare una cosa del genere ad un essere umano!
La signora Tannenbaum ci chiese se poteva usare il telefono per chiamare suo figlio maggiore che si era rifugiato a Metz (Francia) affinché tornasse a Berlino per aiutare il fratello a fuggire. Sapeva bene che se i ragazzi volevano avere una possibilità di sopravvivere, sarebbero dovuti andar via da lì. Poco tempo dopo quest’episodio, le SA fecero un’ispezione a casa nostra. Anche se mi aspettavo che sarebbe successo, quando si presentarono non seppi comunque come reagire. Arrivarono in piena notte, svegliando le bambine che iniziarono a piangere, e presero mio marito, Aaron Jakob Horowitz– possa riposare in pace –per portarlo al quartiere generale della polizia. Non li lasciai però andare senza convincerli a prendere anche me ed insistetti per accompagnarlo. Non persi di vista Papa neanche per un istante. Lasciammo le bambine da sole, senza nessuno che potesse occuparsene, ma non avevamo altra scelta perché la governante, Erna, non c’era, aveva la serata libera. Avremmo comunque perso l’aiuto di Erna poco tempo dopo quella notte perché dal 1935 in poi agli Ariani non fu più permesso di lavorare per gli Ebrei.
Quando arrivammo alla stazione di polizia, rimasi vicino a Papa. Avevo il terrore che lo riducessero come il figlio dei Tannenbaum. Parlai, spiegai e implorai che ci lasciassero andare. Spiegai che Papa non era mai stato coinvolto nella politica, che era un Ebreo ortodosso, un uomo di valore, un gran lavoratore. Alla fine, non so ancora per quale motivo, ci lasciarono andare.

Kristallnacht
La notte del 9 novembre 1938 iniziò con fumo e fiamme: la chiamarono Kristallnacht (la notte dei cristalli). Il nostro amico Benjamin Bestimmt, cantore alla Shul(sinagoga) di Oranienburger Strasse, ci chiamò alle sei del mattino. Riusciva a malapena a parlare e piangendo come un bambino, mi disse tra in singhiozzi«Hanne’le, Hanne’le, mein Shul brennt!»(Hannah, Hannah, la mia sinagoga sta bruciando!). Ci disse di prepararci a ricevere notizia che tutte le sinagoghe della Germania erano in fiamme, e non si sbagliava. I negozi di commercianti che conoscevamo vennero distrutti, le vetrine ridotte in frantumi e la merce danneggiata. Gli oggetti nei negozi vennero fracassati e sfasciati, i libri di preghiere e i Sefer Torah (i Rotoli della Torah) furono gettati in strada e ridotti a brandelli. Rimanemmo nascosti dietro le persiane ad osservare i vandali e le fiamme, udimmo grida e insulti contro gli Ebrei. Non potevamo credere ai nostri occhi.
«Ora dobbiamo fare qualcosa. Ti prego, Yanke’le, vai ad Anversa dove vivono la tua famiglia e i tuoi cugini e cerca di organizzare la nostra fuga in Belgio. Dobbiamo farlo ora che siamo ancora in tempo», scongiurai Papa. Questa voltaPapa mi diede retta. Prese il treno per Anversa, nel 1938 era ancora possibile farlo, e fece visita alla famiglia e ai cugini, chiedendo consiglio in particolare a Fishel, un cugino di primo grado che era venuto a trovarci parecchie volte a Berlino. Discusse anche insieme a suo fratello Herman di come avrebbe potuto guadagnarsi da vivere ad Anversa. Fishel e Herman avevano mostrato a Papail laboratorio orafo ed erano determinati ad aiutare me e le bambine a fuggire. Ma papà si sentiva uno straniero in Belgio. Non voleva stabilirsi lì e imparare una nuova professione, non gli piaceva il paese, non gli importava delle casette una vicino all’altra, dei loro alloggetti e odiava in particolar modo le loro scale ripide. Più di tutto però, credo che non potesse immaginare di lasciare da solo mio nonno, Rav Itsche, che era stato suo maestro e come un secondo padre per lui. Così, tornò a casa.
Mi raccontò che al suo ritorno in Germania, sentì il desiderio di baciare il suolo sotto i suoi piedi. Diceva che, nonostante il regime nazista, la Germania era un buon paese e che il regime sarebbe ben presto caduto. Non potevo credere ai miei occhi quando lo vidi, né riuscivo a cogliere veramente le sue parole. Non vedeva che cosa stava accadendo? Aveva rifiutato il Visto che i nostri cugini avevano inviato da New York nel 1937 e adesso rifiutava di raggiungere la sua famiglia ad Anversa. Ero furiosa!

Settembre 1939: scoppia la Seconda Guerra Mondiale
Il primo settembre 1939, i tedeschi invasero la Polonia. Due o tre giorni dopo, il Regno Unito e la Francia onorarono la loro promessa di proteggerla e dichiararono guerra alla Germania. Le immagini degli orrori e del caos della Prima guerra mondiale erano ancora vividi nella mia memoria e vedevo già un nuovo inferno venire verso di noi. Implorai di nuovo Papadi partire immediatamente e di raggiungere la sua famiglia ad Anversa. Questa volta, acconsentì perché aveva capito che bisognava fare qualcosa di drastico. Partì con le bambine per Colonia, dove avrebbero dovuto aspettare l’arrivo del passatore che lo zio Herman aveva mandato dal Belgio a prenderli. Invece, non venne nessuno. Papa aspettò per otto giorni a Colonia, ma il passatore non arrivò mai, dissero che aveva preso i soldi ed era sparito. Certo, eravamo un bersaglio facile, dopo tutto cosa potevamo fare? Fare causa ad un passatore?
Nel frattempo, le vacanze estive erano praticamente giunte al termine e Papaera ancora a Colonia con le nostre due bambine, senza sua moglie e senza mio nonno. Alla fine, giunse alla conclusione che aveva aspettato abbastanza, sentiva di dover tornare a casa a Berlino il più in fretta possibile, prima di Yom Tov (festività ebraica) e così fece. Ricordo quel giorno come se fosse ieri.
Era il 12 settembre del 1939, Erev Rosh Hashana (la vigilia del capodanno ebraico). Pensavo che mi venisse un colpo quando li vidi arrivare dalla porta e gridai «Yankele, cosa fai qui con le bambine? Perché non sei rimasto con la tua famiglia ad Anversa?».
«Hanne’le,» disse «non ti arrabbiare, dovevo tornare a casa da te. Il passatore non è mai arrivato, lo abbiamo aspettato, ma non si è presentato nessuno. Ho pensato che forse questo era segno che dovevo ritornare a casa per stare con te e il Rav (Rabbino)».

Papa viene arrestato e deportato a Sachsenhausen
Il mattino seguente, alle sei, qualcuno bussò bruscamente alla porta. Papa era completamente vestito e pronto per andare alle Sliches (preghiere di espiazione recitate prima delle feste) nella Shul di mio nonno. Quando aprii la porta capii…due uomini della Gestapo vestiti di nero venivano ad arrestare Papa e suo cugino, che era venuto da Danzica per passare le feste insieme a noi. Perché li portavano via? Dove sarebbero andati? Quando sarebbero ritornati? Non c’era risposta a queste domande. Le bambine piangevano and io ero così terrorizzata che riuscivo a malapena a respirare. Non volevo credere che tutto ciò stesse accadendo proprio a noi, il giorno prima delle feste. I due uomini della Gestapo uscirono, ciascuno tenendo Papa per un braccio; credo che Papa si sia girato per guardarmi, ma non lo vidi. Quei kholeres(criminali) portarono Papa e nostro cugino a Sachsenhausen, un campo di concentramento a circa venticinque kilometri da Berlino, lo stesso in cui mio nonno Itsche era andato per liberare i suoi Hasidim l’anno precedente. Il cugino di Papa aveva un passaporto apolide e venne rilasciato dopo un paio di settimane, ma Yanke’le aveva un passaporto polacco e non riuscì a salvarsi.
Come uccisero Papa
Papa venne assassinato mentre stava andando all’Appellplatz del campo, otto giorni dopo il suo arrivo lì. All’Appell (appello), i prigionieri venivano fatti uscire dalle baracche il mattino presto perché si mettessero in fila, mentre venivano chiamati a voce alta i loro nomi. A volte rimanevano in piedi per ore e la sera dovevano fare lo stesso fino a quando l’ultimo non aveva risposto all’appello. Il “Gedanese” (il cugino) venne a trovarmi dopo essere stato liberato e mi raccontò cos’era successo. Un mattino presto, uscendo di corsa per presentarsi all’Appell, Papa era inciampato e un nazista gli aveva sferrato un calcio per farlo camminare più veloce. Il colpo lo aveva fatto inciampare di nuovo e mentre cadeva a terra, Papa aveva gridato«Shemà Israel!»(Ascolta Israele! Lo Shemà è la preghiera più importante nel Libro delle Preghiere Ebraico, che dichiara l’unità e l’unicità di Dio). Avendo sentito l’invocazione in ebraico, la guardia lo aveva colpito più volte, e ad ogni colpo Papa gridava lo Shemà. Continuarono a colpirlo e il cuore di Papa, che non era un uomo robusto, dopo tutte quelle botte cedette. Il “Gedanese” fu rilasciato dal campo e venne da me per raccontarmi quello che aveva visto.
Venni a sapere della morte di Papa quando Annie Friedburg, la nostra Spaziererin (la signora che si occupava di portare in giro le bambine per le loro passeggiate quotidiane), di ritorno a casa, intercettò un telegramma della polizia. Il telegramma diceva: “In data 19 settembre 1939, Israel Aaron Jakob Horowitz è deceduto. Causa della morte: infarto”.
Il 21 settembre mi convocarono per la consegna del corpo di Papa. Quando mi chiamò la Gestapo, pensai che volessero farmi identificare il corpo. Portai Gitta con me, che all’epoca aveva nove anni e reputavo abbastanza grande per capire, e anche mio nonno Itsche decise di accompagnarci. Chaya’le,invece, restò a casa con la signorina Friedberg perché a cinque anni mi sembrava davvero troppo piccola per assistere a quello spettacolo.
Quando entrammo nella stanza in cui ci aveva accompagnato la Gestapo, vidi una cassetta sul pavimento, una cassetta così piccola che non avrebbe potuto certamente contenere il corpo di un uomo adulto! “ I nazisti devono averlo fatto a pezzi”, pensai. Non c’era altra spiegazione.

Il Taharah
Mio nonno chiese ad uno degli uomini della Gestapo di aprire la cassa in modo da poter celebrare il rito della Taharah (i rituali di pulizia e preparazione della salma per la sepoltura), ma quello rifiutò ammonendolo «Non puoi toccare questa cassa!». Quel gesto mi convinse che avessero ordine tassativo di non rivelare cos’era stato fatto a Papa.

Mio nonno si fermò. Pensò a cosa fare. Poi, recitò il Mitzvah (comandamento ebraico) più straziante della sua vita. Aspettò, chiese di avere un bicchier d’acqua e disse «Reboyne shel Oilem[Padrone dell’Universo], dal momento che non posso rispettare il Mitzvah of Taharahke’Din ve ke’Da’at’[secondo la Legge della nostra religione], verserò una goccia d’acqua su ciascuno dei chiodi che chiudono questa bara a significare il lavacro della salma di Aaron Jacob Horowitz, e ciò dovrà bastare». Con il bicchiere d’acqua in mano, mio nonno versò una goccia sopra ogni singolo chiodo che era stato piantato in quella cassa di legno. Gli uomini della Gestapo rimasero in piedi a guardare, nessuno osò mettergli fretta. Mio nonno recitò tutte le preghiere necessarie mentre Gitta’le ed io ci tenevamo strette l’un l’altra. Fummo testimoni di quello che accadde quel giorno e non lo dimenticheremo mai.

La sepoltura
Era un giorno freddo e cupo. Io riuscivo a malapena a camminare, Gitta per poco non perse i sensi e qualcuno dovette sorreggerla mentre ci incamminavamo verso il cimitero. La Gestapo non ci tolse gli occhi di dosso dal momento della recitazione della Tahahrah fino a quando la cassa venne sotterrata nel cimitero ebraico di Adas Yisroel. Davanti alla lapide, mio nonno recitò altre preghiere oltre al Kaddish (una preghiera che santifica l’Onnipotente e viene recitata in memoria del defunto). Rimanemmo lì in piedi, piangendo in silenzio. Le SS rimasero a controllarci, la loro vera preoccupazione era la cassa: doveva rimanere chiusa.

Dopo la sepoltura
Quel giorno grigio e orribile, mentre tornava a casa, mio nonno ebbe un attacco di cuore. Il dolore per la perdita di Papa e il comportamento della Gestapo furono un duro colpo e gli costarono caro. Credo che mio nonno fosse diventato amico di Papaquando era arrivato a Berlino dalla Galizia nel 1922, perché io lo incontrai ad uno dei Sedarim (celebrazioni per la Pasqua Ebraica) dei miei nonni.
Papaproveniva da un piccolo Shtetl(villaggio) chiamato Linsk [ora si chiama Lesko]. Quando arrivò, non aveva un occupazione, né istruzione o conoscenza di come andava il mondo. Tuttavia, mio nonno lo prese in simpatia e lo aiutò a trovare un lavoro e a studiare. Lo convinse ad andare alle scuole serali di contabilità e insieme impararono il Talmud. Studiavano tutti i giorni e il giorno in cui Papa fu pronto per lo Smiche (essere ordinato Rabbino), si presentò anche all’esame di contabilità. Per mio nonno, Papa era come un secondo figlio, perché l’unico figlio che i miei nonni avevano avuto era morto quando io ero molto piccola. Mio nonno era davvero molto fiero di Papa, lo chiamava un Illui, un Talmid Chacham (studente eccellente).
Dio concesse a mio nonno altri sei mesi di vita, durante i quali mi aiutò con i preparativi per andarcene da Berlino, ma riuscì soltanto a vedere le mie figlie fuggire nel novembre 1939, perché morì il 2 marzo 1940, un mese prima della mia fuga.

Preparativi per la fuga
Dal giorno in cui seppellimmo Papa in poi, la Gestapo ispezionava casa nostra quotidianamente. Iniziarono a portare via oggetti dal nostro appartamento e dal laboratorio, in particolare mobili e utensili per il taglio dei tessuti. Il laboratorio costituiva parte della nostra sartoria, lì tagliavamo, cucivamo e vendevamo cappotti in vari stili; la mia mansione era di tagliare i tessuti e passarli alla produzione. I macchinari del laboratorio erano una merce molto ricercata dagli Yekkes (tedeschi), per cui si portarono via tutto quello che poterono. Ci fu però una cosa che non gli fu concessa: non gli era permesso né spostarmi, né toccarmi. Il medico infatti aveva lasciato ordini tassativi: «Diese Frau duerfte man nichtberuehren! (Questa donna non dev’essere toccata!)». Fui costretta a letto dal giorno del funerale di Papa fino al quello della mia fuga. Sopraffatta dal panico e dal dolore, all’improvviso non riuscii più a vedere nulla; probabilmente ero in uno stato di shock, credevo di avere un esaurimento nervoso e ed ero convinta di essere diventata cieca. Rimanevo coricata e non parlavo con nessuno, non riuscivo a mangiare nulla e le lacrime mi rigavano il viso giorno e notte. Nel giro di una settimana o due, grazie a Dio, ricominciai a vedere. Il nonno Itsche insieme ad alcuni suoi amici, mi furono di grande aiuto, imballarono tutti gli oggetti che gli Yekkes non si erano ancora portati via e che non avevo precedentemente spedito in Belgio. Non so come avrei fatto senza di lui o senza mia nonna, perché si presero cura di me e delle mie bambine e si occuparono di tutto.

La fuga delle mie figlie e la morte del nonno Itsche
Alla fine di novembre del 1939, grazie all’aiuto dei miei nonni, riuscii a preparare la fuga delle mie figlie e le affidai ad un passatore che le portasse ad Anversa passando per Amsterdam. Il mio amico, Lotti Jungerwirt, trovò un passatore disposto a portarle da Berlino fino in Olanda dove lo zio Herman, il fratello di Papa, le andò a prendere e le affidò a Tante (zia) Roizele ad Anversa. Mio nonno, malato e straziato dal dolore, come ho detto, morì a marzo del 1940. Essendo debilitata fisicamente e psicologicamente distrutta, non mi lasciarono assistere al suo funerale, ma riuscii ad osservare dalla finestra la processione da Muenz Strasse, dove abitavano i miei genitori, a Alte Shoenauser Allee, dove vivevamo noi. Quando la processione passò davanti a casa nostra, vidi mia nonna voltarsi, guardare in alto verso di me e fare un cenno del capo, come a voler dire addio.
Quell’uomo che era stato così buono con noi, che aveva fatto da guida a Papae a me, non c’era più. Durante e dopo la guerra, continuai a pensare a lui e a parlargli: quando mi trovavo in una situazione critica, mi rivolgevo a lui. Gli dicevo «Zeidishie, [diminutivo di nonno], quando sono venuta a farti visita nel quartier generale della Gestapo a Moabit, mi hai promesso che ti saresti sempre preso cura di me e che non mi avresti mai abbandonata. Quindi, consigliami ora, te ne prego, dimmi cosa fare».
Quando ebbi la possibilità di mandare le mie figlie in Svizzera da dove eravamo in Francia, gli chiesi consiglio su come fare e lui mi ammonì: «Non separarti mai dalle tue bambine!». Ho cercato di seguire il suo consiglio, ma non è sempre stato possibile, però mi sono sempre sentita più al sicuro sapendo che lui vegliava su me.

Anch’io lascio Berlino
Un mese dopo la morte di mio nonno Itsche, fu il mio turno di lasciare Berlino. Mia nonna, Hene Hinde Chaje, ed io piangemmo lacrime amare al momento di separarci, entrambe sentivamo che era l’ultima volta che ci salutavamo. Tempo dopo, venni a sapere che era stata presa a Berlino in una delle retate di Ebrei del 1941, e portata a Theresienstadt e da lì, neibich(povera donna), a un vernichtungslager(campo di stermino).
La mia fuga fu orribile. Lasciai Berlino insieme a due amici di Papa, a cui pagai il viaggio perché volevo che mi accompagnassero attraverso le frontiere tra la Germania e l’Olanda e poi a quella con il Belgio e pagai anche per il passatore. Una volta arrivata in Belgio, sarei finalmente stata libera di raggiungere le mie figlie. Il passatore ci fece attraversare la Germania per passare il confine ad Heerlen (Olanda), ma alla frontiera fummo fermati dalla polizia olandese. Ci negarono il permesso di entrare nel paese e ci rimandarono ad Aachen (Germania), dove fummo arrestati dalla Gestapo. Dopo lunghi interrogatori, portarono via i due giovani che erano con me. Venni poi a sapere che uno dei due, il ragazzo biondo, si era suicidato per la disperazione. La Gestapo mi interrogò per ore: volevano sapere chi mi aveva portata lì, perché me ne stavo andando dalla Germania, dov’erano mio marito e le mie figlie e dove ero diretta. Mi sentivo sempre più esasperata e furiosa, ma non avevo paura; avevo già perso così tanto che non mi importava di che cosa mi sarebbe successo. Come una furia, iniziai a urlare ai miei inquisitori «Ne ho avuto abbastanza! Smettetela di torturarmi con le vostre domande! Se le mie risposte non vi vanno bene, allora, avanti, sparatemi!». Molto probabilmente pensarono che fossi un’isterica o una pazza perché dopo quell’accesso d’ira smisero di assillarmi.
Poco dopo, un giovane ufficiale entrò nella stanza dove mi stavano interrogando. Doveva appartenere alle Ober SS, a giudicare dalla sua uniforme decorata con le medaglie più prestigiose. Si comportò in modo estremamente corretto e rispettoso: mi prese la mano, si rivolse a me dicendo Gnädige Frau(Gentile Signora) e mi disse che non volevano farmi del male, stavano solo cercando di catturare uno di quegli uomini che, sotto falso nome, trasportavano illegalmente cittadini tedeschi da una parte all’altra della frontiera. Era un tipo cortese, parlava in modo pacato e sembrava gentile. Mi offrì il braccio e mi chiese di seguirlo alla stazione del treno, dove comprò un biglietto di sola andata in prima classe per Berlino e mi disse di tornare a casa e di non farmi mai più vedere ad Aachen. «Dopotutto,»aggiunse «la Germania è un buon paese e noi siamo della brava gente. Le prometto che ci prenderemo cura di lei».
Con il biglietto in mano, lo seguii fino al treno, lui mi aiutò a salire, e mi salutò con un inchino battendo i tacchi. Mi guardai intorno e vidi che il mio scompartimento era ben arredato e più che decoroso, ero davvero in prima classe. Ma avevo già deciso: non sarei tornata a Berlino per nessun motivo al mondo. Così scesi alla stazione di Colonia per cercare un altro passatore. Uscii dalla stazione guardandomi intorno con molta cautela e mi diressi immediatamente alla casa della donna che aveva ospitato Papa quando aveva tentato di fuggire da Berlino. La donna riconobbe il mio nome e mi lasciò stare da lei, soltanto per una notte però, perché la stavano sorvegliando. Mi consigliò di andare a casa di un’altra donna che secondo lei mi avrebbe nascosta ancora per un giorno o due. Così feci, ma dopo quei due giorni, mi ritrovai di nuovo per strada. Decisi dunque di andare di chiedere nuovamente aiuto alla signora che mi aveva ospitato all’inizio, ma questa volta non mi lasciò più entrare: «È diventato pericoloso nascondere gli Ebrei» mi disse. Per tentare di convincerla, le offrii la mia pelliccia. Era quella che Papaed io avevamo comprato insieme il giorno prima della Kristallnacht.
Il mio secondo tentativo di fuga
Mentre me ne stavo lì nell’ingresso con la pelliccia in mano, la donna decise che nonostante tutto avrebbe corso il rischio di nascondermi. Mi avrebbe permesso di rimanere a Colonia fino a quando lo zio Herman non avesse mandato un nuovo passatore a prendermi. Quando finalmente si presentò il passatore, ritornammo ad Aachen nella speranza che questa volta saremmo riusciti a passare la frontiera.
Non fu per niente facile. Il passatore mi portò nella periferia di Aachen e da lì ad una casa stabilita, ma proprio quando stavamo per entrare, una donna molto strana ci superò entrando di corsa. Mi afferrò per la mano e mi trascinò dentro con lei, dicendomi «Vieni, veloce! Non c’è tempo da perdere. Qualcuno ti ha tradita!». La Gestapo stava cercando sia me che il passatore, qualcuno doveva averci visto e aveva avvisato la polizia. Sempre tenendomi la mano, la donna si diresse verso il retro della casa, aprì una porta che conduceva ad una cantina e mi spinse dentro. Poi chiuse subito la porta dietro di sé e sentii solo lo scatto della serratura. Ero chiusa a chiave in una cantina e il passatore era sparito. Nella cantina era buio pesto, così tenendomi al corrimano delle scale, scesi alcuni gradini, ma prima di potermi fermare mi ritrovai con l’acqua fino alle ginocchia. L’acqua era gelida e non sapevo cosa fare; non mi potevo sedere sulle scale, altrimenti mi sarei bagnata tutta, quindi rimasi semplicemente in piedi, in fondo ai gradini, senza muovermi. Rimasi lì così per un tempo lunghissimo; attraverso le fessure del soffitto sopra di me sentivo delle voci che parlavano in tedesco: «Non sono qui» disse una voce, «Ma qualcuno dice di averli visti» proseguì un’altra. La ricerca continuò, il cuore mi batteva l’impazzata e avevo paura anche solo di respirare. Poi ci fu silenzio.
Dopo alcune ore, bagnata, congelata e affamata, sentii il rumore delle chiavi nella porta. Ero entrata in quella cantina alle dieci del mattino e fu soltanto a mezzanotte che finalmente qualcuno venne ad aiutarmi ad uscire. Sentii la voce di un uomo sussurrare «E’ancora lì?». Irritata ed esausta risposi «Certo che sono qui, dove altro potrei essere?». L’uomo che aveva parlato, credo fosse il marito della donna che mi aveva fatta entrare, scese le scale, mi prese per mano e mi aiutò a risalire le scale e ad uscire dall’acqua. Poi mi diede un asciugamano per ripulirmi la gonna e i piedi e disse «Ora dobbiamo sbrigarci, abbiamo molta strada da fare».
Tenendomi per mano, iniziò a correre e io lo seguii. Caddi a terra più volte, ma lui era molto forte e ogni volta mi afferrava e mi tirava su e continuavamo a correre. Rivolsi lo sguardo verso l’alto e vidi che il cielo era chiaro e limpido, le stelle brillavano e potevo distinguere chiaramente i campi attorno a noi. Allora, rivolgendomi al cielo sussurrai a mio nonno, «Zeidischie, dove sei? Hai promesso che mi avresti aiutato se ne avessi avuto bisogno. Guarda questo cielo, chiunque ci stia inseguendo potrebbe vederci. Per favore, fa’ piovere, fa’ piovere a dirotto con tuoni e nuvole scure, così che i nostri nemici non possano vederci e desistano dall’inseguirci».Sembra impossibile, ma appena ebbi terminato la preghiera, iniziò a piovere e non scese soltanto pioggia, bensì un acquazzone torrenziale! In quel momento, seppi che mio nonno mi aveva ascoltata e che sarebbe andato tutto bene.
Così, bagnata fradicia,continuai a correre e a cadere fino a che arrivammo alla porta di un’altra casa. L’uomo che mi aveva portata lì la aprì velocemente e mi spinse all’interno di una stanza buia. Da qualche parte, in fondo vidi lampeggiare una pila e sentii la voce di un’altra persona rivolgersi a me: «Per favore, non si spaventi, sto venendo verso di lei». Un uomo che non avevo mai visto si avvicinò e mi chiese se avevo freddo, gli risposi che avevo le gambe ghiacciate ed ero completamente fradicia. Si sedette, mi prese i piedi tra le mani e iniziò a sfregarmeli, poi li infilò freddi gelati dentro la camicia, e me li riscaldò contro il petto nudo. Rimanemmo seduti così per un po’, fino a quando fui in grado di muovere nuovamente le dita. L’uomo mi spiegò che avremmo dovuto camminare ancora, mi diede una fetta di pane e qualcosa di caldo da bere e uscì dalla stanza. Iniziai ad abituarmi all’oscurità e a distinguere i mobili del salotto. Dopo poco, l’uomo rientrò per dirmi che dovevo riposare un po’, prima di proseguire, iniziai a sentirmi meglio e a recuperare la speranza.
Tornò dopo pochissimo tempo però e con tono concitato mi disse «Dobbiamo andarcene adesso, non c’è tempo da perdere».Ci incamminammo di nuovo verso i campi e nonostante questa volta la marcia fosse più breve, continuai ad inciampare e il passatore dovette aiutarmi a rialzarmi non so più quante volte. Alla fine arrivammo ad una cascina dove mi disse di aspettare fino a che l’auto che aveva ordinato fosse venuta a prenderci. Dopo aver aspettato un po’, sentì il rumore di una macchina che si avvicinava. Prendendomi sotto braccio, il passatore mi condusse all’auto dicendo «Signora, il suo viaggio è quasi finito».
Vidi l’autista, vidi l’auto e vidi il bagagliaio completamente aperto e mentre ci avvicinavamo riuscì a scorgere una valigia aperta, una sorta di grosso bauletto. Mi domandai perché il bagagliaio era aperto, ma non dovetti aspettare molto per scoprirlo. Senza darmi spiegazioni, l’uomo che poco prima si era sfregato i miei piedi contro il petto e mi aveva offerto da mangiare e da bere mi prese e mi mise dentro quella valigia e senza dire una parola, me la chiuse sopra la testa! Pensavo che sarei morta soffocata, «Cosa sta facendo? Non riesco a respirare! Sto soffocando! Per favore mi faccia uscire», gridai. Sentii la voce del mio passatore intimarmi di calmarmi, “Signora, la prego, deve cercare di stare calma, solo così riuscirà a respirare meglio. Non c’è altro modo per portarla via di qui e farla arrivare in Belgio: le frontiere sono pattugliate di continuo e sono pericolose come non mai» disse, e senza ulteriori indugi, chiuse il bagagliaio dell’auto. Iniziammo a muoverci, il bauletto sembrava una bara, ma almeno ero viva. Mi convinsi che se fossi rimasta tranquilla senza farmi prendere dal panico sarei riuscita a respirare.
L’autista continuò a guidare per un po’, poi, dopo meno di una ventina di minuti, si fermò, aprì il bagagliaio e il baule e mi aiutò a scendere dall’auto. «Abbiamo attraversato il confine e ora siamo in Belgio», disse invitandomi a sedermi sul sedile anteriore, di fianco a lui. Gliene fui così grata! Il passatore non c’era più e vidi per la prima volta il Belgio, il paese che sarebbe stato la mia nuova casa per tanti anni. Proseguimmo in auto per un po’ e non vidi anima viva per la strada. Entrammo poi in una cittadina tranquilla, Verviers, e proseguimmo lungo una strada deserta fino a fermarci davanti al negozio di un grossista di tappeti, dal quale una donna uscì per salutarmi. Disse che ci aspettava molto prima, dal che mi resi conto che probabilmente ci eravamo imbattuti in difficoltà impreviste durante il viaggio. Le bastò darmi un’occhiata per capire che era stato proprio così, e mi portò al piano di sopra. «Signora,» disse «ha un aspetto terribile. Non possiamo proprio lasciarla in questo stato. Vado a prenderle degli indumenti puliti».
Ero ancora nell’atrio quando sentii la voce di un uomo che era appena entrato in casa. Mi voltai e non riuscii a credere ai miei occhi: lo zio Herman, il fratello minore di mio marito, era appena arrivato. Assomigliava così tanto a Papache iniziai a piangere. Ci abbracciammo e mi disse che era molto felice di vedermi e che presto avrei rivisto le mie bambine. «Stanno bene e si comportano come delle vere signorine, aspettano il tuo arrivo con impazienza. Ah, e ora frequentano una scuola ebraica che, devo ammettere, è un po’ troppo frum (ortodossa) per i miei gusti»
Mi dovevo lavare e mettermi dei vestiti puliti. La signora belga mi diede tutto quello di cui avevo bisogno: biancheria calda, una gonna, un maglione, delle calze e delle scarpe. Mi vestii in fretta, raccolsi i miei abiti sporchi e mi sistemai alla meglio per sembrare il più possibile presentabile. Dopo tutte le difficoltà di quel viaggio, ero immensamente grata ed incredibilmente sollevata di essere riuscita ad arrivare. Avevo il cuore gonfio d’emozione e mi vennero le lacrime agli occhi quando abbracciai e ringraziai quella generosa signora. Lo zio Herman chiese all’autista che ci aveva portati fin lì di condurci fino ad Anversa, alla casa di Tante Roizele, in Grote Beerstraat, 3.


CAPITOLO SEI


L’ESTATE DEL 1982 – RIPERCORRENDO IL PASSATO





Condividiamo e ripercorriamo ricordi insieme ai nostri figli, ormai grandi


Quando i nostri figli erano oramai diventati grandi, decidemmo di rivisitare il nostro passato con un viaggio insieme a loro attraverso alcuni paesi dell’Europa Occidentale. Il nostro obiettivo era di apprendere il più possibile sulla storia della Seconda Guerra Mondiale e su quello che accadde agli Ebrei nell’Europa Occidentale, dove avevamo vissuto. Ci portammo dietro libri di storia, quaderni per appunti e cassette per registrare le nostre conversazioni. Allo stesso tempo però, dal momento che questo era il nostro primo viaggio in Europa con la famiglia, volevamo condividere e goderci i tesori del continente: l’arte, la musica, l’architettura, i paesaggi, il cibo e la sua gente. Questo viaggio avrebbe dunque rappresentato un caleidoscopio delle nostre passioni: stare insieme, imparare insieme, condividere la nostra vita così com’era allora e ricordare il passato.


Così, durante le vacanze estive del 1982, portammo la nostra famiglia in Europa per ripercorrere insieme ai nostri figli le esperienze che avevano caratterizzato la nostra infanzia. La nostra idea era di andare prima in Germania, dove mio marito Wally (Walter) era nato, poi, avremmo visitato la Francia e l’Italia dove mia madre Hannah, mia sorella Gitta ed io fuggimmo durante la guerra. Il Belgio non rientrava nel nostro itinerario perché i ragazzi erano vi erano già stati quand’erano ancora piccoli per andare a trovare i nonni. Nemmeno Berlino, la città in cui Gitta ed io siamo nate, faceva parte dell’itinerario. Non eravamo ancora pronti per quella visita, che avremmo poi fatto nel 1994.


Convincemmo i nostri tre figli, al tempo già grandi e alle soglie dell’età adulta, a fare il viaggio con noi. Ari, ventun anni, aveva ultimato quattro anni di college; Gefen, vent’anni, aveva finito il suo terzo anno di college e Miriam, diciassette, stava per iniziare il suo ultimo anno di scuola superiore. Sia Ari che Gefen avevano passato un anno all’Università Ebraica e la fine degli studi lì di Gefen coincideva con il suo ritorno da Israele ed il suo arrivo a Schipol, all’aeroporto di Amsterdam.


Questo viaggio non era un evento qualsiasi. Da tempo discutevamo di tornare in Europa. Per molti anni i ragazzi avevano ascoltato le storie della nostra infanzia e le descrizioni che Wally aveva fatto del suo villaggio, i suoi ricordi di quando lo aveva lasciato nel 1938 e del suo viaggio sulla nave New York da Bremenhaven a New York. Tra le esperienze più memorabili, Wally spesso ricorda il suo terribile mal di mare e la trasmissione radiofonica dell’incredibile match tra il campione di pesi massimi tedesco Max Schmelling e l’acclamato Joe Louis, americano. Alla fine, fu Joe Louis a vincere il match, quindi sulla nave si avvertiva un’atmosfera esultante, ma anche di paura. I rifugiati ebrei temevano che l’equipaggio nazista che li aveva visti simpatizzare con Joe Louis li avrebbero tormentati. In verità, gli Ebrei a bordo poterono a malapena sopprimere il loro entusiasmo nell’assistere alla vittoria di questo nero americano mentre l’equipaggio nazista, infastidito e furioso, mormorava “fallo” e…inveiva contro gli Ebrei.


Per Wally, il dolore di aver lasciato la Germania, dove c’erano i suoi amati nonni, la sua famiglia e i suoi amici era inestricabilmente legato al senso di sollievo nell’essere salito a bordo di quella nave che avrebbe liberato lui e suoi parenti più stretti, e li avrebbe portati verso luoghi più sicuri, negli Stati Uniti.


I nostri figli avevano anche ascoltato le mie esperienze durante la guerra, comprese le storie di mia mamma e mia sorella di come fuggimmo da Berlino nel 1939 e andammo ad Anversa, e poi a Bruxelles. Gli avevo raccontato di come, con dei documenti falsi, vivemmo fingendoci cristiane e poi, nel 1940, fuggimmo a Dunkerque nella speranza che gli inglesi in ritirata ci avrebbero portate con loro, salvandoci. I nostri figli sapevano anche che quando quel tentativo fallì, iniziammo una fuga labirintica verso il sud della Francia. Infine, erano affascinati dalla nostra fuga in Italia attraverso le Alpi, che avvenne quando gli italiani dichiararono l’armistizio con gli Alleati l’8 settembre 1943. Sapevano anche che a quel punto, quando tutto la situazione era ormai sicura e la guerra era quasi finita, mia sorella ed io fummo separate da nostra madre, che rimase a Roma fino alla fine della guerra mentre noi ci imbarcavamo a Bari dirette a Eretz- Israle (Terra d’Israele) nell’aprile 1945, grazie alla Youth Aliyah (Associazione Immigrazione Giovanile). Rimanemmo a Ben Shemen, un villaggio agricolo per i bambini molto speciale fino all’ottobre 1946, per un totale di diciotto mesi.


I nostri figli erano consapevoli di quello che ci stava a cuore e avevano compreso quali erano le loro origini. Avevano infatti studiato storia ebraica nella loro scuola ebraica ortodossa, erano andati in Israele per studiare e lavorare, partecipavano a gruppi riformisti della gioventù ebraica e campi estivi. Inoltre, avevano studiato anche storia europea alle scuole superiori e al college. La loro formazione ebraica era, come amavano definirla scherzosamente, “Re-Conserva-Dox” (un acronimo per Riforma, Conservatrice e Ortodossa). Inoltre, le loro convinzioni politiche e sociali erano un amalgama di Sionismo laburista e liberalismo americano. Tuttavia, oltre a queste influenze positive, sapevo di aver intenzionalmente trasmesso ai miei figli alcuni atteggiamenti alienanti. Ricordavo loro più spesso di quanto volessi di non dimenticare che non erano come gli altri bambini americani, che non dovevano dare per scontato il loro benessere perché erano, e sarebbero sempre stati, figli di rifugiati e sopravvissuti.


Oggi mi chiedo quale fosse il vero scopo di quelle ammonimenti. Cercavo forse di mantenere i miei figli in un uno stato di equilibrio instabile per instillare in loro la stessa sensazione di cui ero ostaggio di non sapere bene a quale luogo appartenevo veramente? Volevo forse privarli della sensazione di essere ben integrati nel paese in cui erano nati e di cui eravamo tutti cittadini? La verità è che non volevo che dimenticassero la loro identità, proprio come non io non potevo permettermi di dimenticarmi la mia: ero la figlia di una sopravvissuta e dovevo farmi carico della responsabilità di ricordare le loro radici. Inoltre, fin dall’inizio, avevo sentito il bisogno di dirgli chi ero e da dove venivo, poiché con loro mi sentivo al sicuro e speravo che questo senso di solidarietà nel condividere le nostre storie sarebbe stato corrisposto.


Alla fine, i miei figli misero le cose in chiaro. Un giorno, dopo una delle mie filippiche, la mia figlia più grande, guardami con aria molto seriami affrontò dicendo «Sai mamma, forse tu senti come una rifugiata perché effettivamente lo sei, ma noi siamo nati qui e siamo americani –e tra l’altro anche tu lo sei –noi qua ci sentiamo a casa e non stranieri come invece ti senti tu».


Quella sicurezza che cercavo di far vacillare in loro, fu invece completamente riparata da Wally, che essendo fuggito dalla Germaia da bambino giusto in tempo, voleva sentirsi un ebreo Americano con tutto il cuore. Aveva un ruolo importante nella Comunità Ebraica, era il presidente della commissione di una scuola ebraica e di un’altra organizzazione, vice presidente di un’altra ancora e il socio principale del suo studio di avvocati. Non c’era dunque nessun’ombra di alienazione da quel lato della nostra partnership genitoriale. Io invece, avendo studiato psicologia, avevo iniziato a fare ricerca in psicoterapia all’università, insegnavo la insegnavo ed era il mio campo di lavoro. Ero una partecipante attiva a molti progetti incentrati sull’Olocausto.


Anche se questa generalizzazione potrebbe essere troppo semplicistica, credo che i nostri figli abbiano ricevuto dei buoni valori. Eppure, non si può negare che insieme a tutte le cose positive, abbiamo inflitto ai nostri figli una buona dose di problemi e sofferenze.


In breve, lo scopo del nostro viaggio del 1982 era di aiutare i nostri figli ad integrare quello che nel corso degli anni avevamo trasmesso loro e quello che avevano scoperto da soli. Wally ed io sapevamo fin troppo bene che ben presto tutti e tre, ormai grandi, se ne sarebbero andati di casa. Dunque questo viaggio voleva essere una celebrazione dei primi anni insieme della nostra famiglia, di quello che avevamo impartito loro e di quello che speravamo ancora di poter scoprire insieme a loro prima che ciascuno seguisse la sua strada verso l’età adulta. Il nostro viaggio in Europa, aveva sì come finalità quello di essere un veicolo di trasmissione con l’obiettivo di far conoscere ai ragazzi i luoghi dove eravamo cresciuti durante le persecuzioni naziste, ma voleva anche essere divertente: avremmo continuato a condividere le nostre passioni, il nostro amore per la vita, l’arte e l’estetica e quello che di buon l’Europa aveva da offrirci.


Decidemmo di tenere dei diari personali e di registrare le nostre conversazioni e ciò che segue è proprio basato su quelle conversazioni e sul mio diario del nostro viaggio.





Martedì 27 luglio 1982


Lasciamo Chicago alle 5 del pomeriggio. Partiamo in quattro dagli Stati Uniti, ma saremo in cinque una volta arrivati a Schipol. Il nostro volo è affollato. Il cibo kosher non è neanche lontanamente mangiabile. (Ogni volta che ordino un pasto kosher su un aereo mi sento esposta, come se annunciassi a tutti: “Sono Ebrea”. Avrei potuto ordinare vegetariano, ma lo so, ovviamente il problema non è il cibo…).


Il volo procede bene e senza intoppi. Arriviamo ad Amsterdam alle 8.45 del mattino, camminiamo verso un gate di collegamento e aspettiamo l’arrivo di nostra figlia Gefen. Compare all’improvviso, radiosa! Abbronzata dal sole di Israele con la sua giacca indiana multicolore, sembra un acquerello appena dipinto. Ci corre incontro e la accolgono quattro abbracci calorosi: una rimpatriata gioiosa in cui ognuno ammira gli altri e come sono cresciuti. Tutti e tre sono così belli ed esotici. Siamo presi da ondate di eccitazione e forse anche un po’ di paura: come sarà questo viaggio?


Come c’era da aspettarsi, la nostra prima escursione, ancor prima di fare il check-in all’hotel, è una gita in barca sui canali. Secondo Wally. «è il modo migliore di vedere la città». Così, cerca ogni scusa possibile per organizzare questa gita in barca e devo ammettere che si rivela davvero un’escursione fantastica tra canali, chiese e case pittoresche. Camminiamo per Dam Square e troviamo un ristorante aperto specializzato in formaggio, pane croccante, cioccolato al latte e montagne di cioccolatini olandesi. Wally e Miriam, i nostri cioccolato-dipendenti ufficiali, non si lasciano scoraggiare dalla fila per queste prelibatezze. Personalmente, io invece mi metterei in cosa per un pezzo di pane croccante con il Gouda.


È soltanto dopo aver assaggiato un po’ di Amsterdam che arriviamo finalmente all’hotel: la nostra camera è pulita, spaziosa e piacevole, forse un po’ cara considerando che non ha nemmeno la tenda attorno alla vasca da bagno. Così, superiamo con successo il nostro primo giorno in Europa e decidiamo che nonostante tutto questo sentimento di comunità, ciascuno di noi manterrà le proprie caratteristiche uniche e le proprie piccole inconfondibili manie. Prima di andare a dormire, i ragazzi ammettono di sentire la mancanza dei loro amici più speciali: ad Ari manca K., a Gefen manca S. e a Miriam manca B. Wally, invece, si preoccupa di come ad muoversi senz’auto, dal momento che non sarà disponibile fino a domani o dopodomani.


Mercoledì 28 luglio 1982


Taxi, treno o tram? Com’è meglio girare la città? Gefen e Miriam non hanno bisogno dell’auto, preferiscono camminare mentre Ari, da ragazzo amante dei treni e dei vagoni, non vede l’ora di salire sul tram. Così decidiamo di fare entrambe le cose: giriamo a piedi e prendiamo il tram.


La nostra destinazione è la Casa di Anna Frank, oggi un museo in cui si trova l’Alloggio Segreto, l’attico dove la famiglia Frank visse nascosta dal 9 luglio 1942 al 4 agosto 1944. La copia originale del diario di Anna Frank è esposta all’interno del museo che serve da centro di documentazione sull’anti-semitismo e su altre ideologie razziste.


Quello che ci interessa di più sono le deportazioni da Westerbork ad Auschwitz e Bergen Belsen, le fotografie e gli scritti rimasti. Dopo aver lasciato la Casa di Anna Frank, ci incamminiamo verso il memoriale dedicato agli Ebrei olandesi deportati nel 1942. Le prime deportazioni avvennero nel 1941, e quelle più massicce nel 1942. In Olanda la popolazione ebrea era di 140.552 persone nel 1940, di cui 110.000 vennero deportate nel 1941 e 1942. Di queste, soltanto 6.000 tornarono vive. La potenza dei numeri.



Venerdì 30 luglio 1982


Il giorno inizia con alcuni problemi, contrattempi e preoccupazioni riguardo all’auto. Sarà pronta? Funzionerà? Sarà sufficientemente spaziosa? Perché preoccuparsi di queste cose, mi chiedo? No, penso che il vero problema non sia l’auto, c’è qualcos’altro. L’auto infatti va benissimo, è confortevole, pulita e spaziosa. Guidiamo fino ad Alkmar, un piccolo villaggio fuori Amsterdam verso l’Aia, la capitale e Scheveningen, una stazione balneare molto famosa. Facciamo un picnic sulla spiaggia, giochiamo nella sabbia, ci rotoliamo e ridiamo –per ora tutto bene. Cerco di non pensare a domani, ma non riesco ad evitarlo.





Sabato 31 luglio 1982


Dall’Olanda alla Germania


Oggi è quel domani a cui stavo pensando. Lasciare Amsterdam non è facile, non sono stata in Germania da quando ce ne siamo andate nel 1939. Sono passati quaranta tre anni e ora siamo qui: prendiamo per la prima volta l’autobahn e ripenso a quelle grandi strade di cui Hitler andava così fiero. Non mi aspettavo che a campagna fosse così, tranquilla, con ampie distese di diverse tonalità di verde, una terra così fertile, una tale pace. Mi sento male. Ci fermiamo ad un’area di servizio e non riesco a scendere dall’auto. Sento le voci degli impiegati del distributore di benzina, il suono della loro lingua mi provoca delle vampate di nausea. Non riesco a bere o a mandar giù nulla. Ma i ragazzi, ah, i ragazzi! Mi mettono di nuovo di fronte alla realtà e mi prendono in giro, imitando il modo di parlare dei tedeschi che ci circondano. «Mamma» dicono «queste persone sono una generazione nuova. Non sono i Nazisti della Seconda Guerra Mondiale».


(In auto, Miriam registra la nostra conversazione)


Chaya: Sì, lo so.


Miriam: Siamo arrivati a Roth-Wolfshausen nel pomeriggio. Prima di andare in hotel, papà voleva mostrarci il fiume Lahn, così ci siamo seduti lungo le sue sponde, a guardare l’acqua.


Ari: (inizia a cantare) Al Naharot Bavel. « Sulle rive dei fiumi di Babilonia ci siamo seduti e abbiamo pianto al ricordo di Sion».


Benvenuti in Germania, terra di contrasti. Leggeremo ora alcuni estratti selezionati tratti da Night di Elie Wiesel, mentre attraversiamo in macchina la campagna lasciata a maggese nella Germania di oggi, 1982. «Sembrava che il campo fosse stato flagellato da un’epidemia, vuoto e morto. C’erano soltanto alcuni prigionieri malati che camminavano tra i vari settori» (45).


«Pane e minestra –questa era la mia vita –Ero un corpo. Forse ancora meno: ero uno stomaco affamato. Solo lo stomaco era consapevole del passare del tempo» (50).


Oggi invece, lungo la strada per Wolfhausen vediamo campi bellissimi, spighe mosse dal vento di grano, segale, cumino, che crescono rigogliose in lontananza, colline, alberi verdi. Difficile a credersi. Ed ora, un commento editoriale da Gefen:


Gefen: L’aria è nauseante; c’è un odore terribile qua.


Wally: Sono soltanto gli animali.


Miriam: Raccontaci della tua famiglia, papà.


Wally: Furono tutti deportati a Theresienstadt. Quelli che rimasero vennero raggruppati in alcuni villaggi, ma la maggior parte rimase a Roth fino al settembre 1942. Se provate a cercare informazioni al riguardo sui libri di storia, vedrete che lo stesso accadde anche a Berlino. Nel libro Gli ultimi Ebrei di Berlino, descrivono il periodo in cui gli ultimi Ebrei vennero deportati. Fu dopo la conferenza dei Nazisti a Wannsee, nel gennaio 1942, in cui decisero di mettere in atto la Soluzione Finale: la totale distruzione degli Ebrei. Il 20 settembre 1942 la nostra famiglia venne deportata a Theresienstadt.


Mirian: Dov’è Theresienstadt?


Wally: In Cecoslovacchia. Doveva essere un campo modello in cui mostrare al mondo che gli Ebrei non venivano maltrattati come si iniziava a sospettare. Verso la fine della guerra, Theresienstadt divenne uno snodo di smistamento verso Auschwitz, ma ovviamente non lo fecero trapelare, al contrario, permisero di costruirvi un teatro, un’orchestra e una scuola e il rabbino Leo Baeck, che era il rabbino Capo di Berlino, venne nominato a capo della comunità del campo.


Miriam: È sopravvissuto alla guerra?


Wally: Sì, è venuto nella nostra sinagoga Habonim a Chicago ed è anche andato a Gerusalemme.


Ari: È vero, l’ho visto là.


Gefen: Chi lo nominò capo della comunità?


Wally: I nazisti. E Leo Baeck tenne agli Ebrei all’oscuro di tutto quello che succedeva nei campi di stermino.


Gefen: Leo Baeck venne fortemente criticato per il suo silenzio.


Wally: Questa fu la sua risposta alle accuse che gli vennero rivendicate: «Che bene avrebbe fatto a queste persone sapere che stavano andando incontro alla morte?»


Gefen: C’erano molti che la pensavano come lui. A Bialystok c’era quel certo Barasz. Anche lui era al corrente di quello che stava accadendo, vero papà? [Efraim Barasz era capo della comunità ebraica di Byalistok ed era anche a capo dello Judenrat. Uomo dalle spiccate capacità organizzative, era convinto che soltanto mantenendo un’industria altamente produttiva nel ghetto, gli Ebrei avrebbero potuto scampare alle deportazioni. Anche se era stato informato delle stragi di Ebrei da parte degli Einstatzgruppen, pensava che la popolazione ebrea del ghetto avrebbe tratto dei vantaggi dalla collaborazione con i nazisti. Alla fine, lui e la sua famiglia, insieme ai membri dello Judenrat (Consiglio Ebraico) e ad altri venticinque mila Ebrei nel ghetto furono deportati tra l’agosto e il settembre 1943; alcuni vennero messi sui treni diretti a Treblinka e altri a Majdanek. Barasz, sua moglie e i membri dello Judenrat vennero assassinati a Majdanek. Pare che gli ultimi Ebrei di Byalistok siano stati deportati al campo di Poniatowa e assassinati nel novembre 1943 ]. Adattato da Israel Gutman.


Wally: Sì, sapeva quello stava succedendo. Con il senno di poi, quello fu un grave errore. Le persone avrebbero dovuto sapere tutto e ad avrebbero poi reagito con tutto il panico che sarebbe stato naturale provare. Ma i capi delle comunità ebraiche pensavano che avrebbero salvato la vita di molti Ebrei se le loro comunità avessero continuato a funzionare, permettendogli di vivere al meglio possibile in quel contesto.


Miriam: Sì, ma quella non è una scusa.

Wally: È vero. Anche Hannah Arendt la pensava così e molti l’hanno criticata per questo.

Sola andata per Ammoeneberg, Hessen

Wally: Questa è Ammoenberg. Konrad Adenauer nacque qua vicino; divenne cancelliere della Germania dopo la guerra.

Ari: Der Alte, Der Alte

Wally: I nobili di questa zona vivevano spesso in cima a queste colline per essere più al sicuro e durante la Guerra dei Trent’anni questa parte dell’Hessen venne distrutta. Assomiglia un po’ all’Har Tavor, non trovate?

[Trovo sconvolgenti le associazioni di Wally tra il paesaggio tedesco e quello di Israele. Invece, ascoltare le citazioni di storia cui fa riferimento mi piace molto, non c’è dubbio]
Miriam: Dove credi che vivessero i nostri avi?

Wally: Probabilmente nella Jüdenstrasse

(Una famiglia tedesca cammina sotto il forte)

Chaya: A Nizza, un giorno vidi una famiglia camminare per strada. All’epoca eravamo nascoste e non ci era permesso lasciare la casa; ero gelosa di quella famiglia cristiana. Loro erano liberi, ma io non facevo parte del loro mondo. Loro appartenevano a quel mondo e io no.
Wally: Anch’io mi sentivo escluso, proprio come la mamma. Questo spiega molte cose del modo in cui oggi ci comportiamo quando siamo in un gruppo. È come se non fossimo mai al nostro posto, anche quando siamo insieme ad amici che conosciamo bene. «Siete una generazione persa» diceva il Rabbino Wechsberg, il nostro Rabbino ad Habonim. «Siete dei rifugiati ebrei-tedeschi e lo sarete per sempre». Ci aveva spiegato che eravamo stati sradicati ad un’età così giovane che non avevamo avuto il tempo di costruire da soli delle basi solide: né in Germania né negli Stati Uniti. Per certi aspetti, questo aveva reso più semplice l’adattamento negli Stati Uniti, per altri, contribuiva a farci sentire sradicati.

Chaya: Miriam ha chiesto se da bambini pensavamo che ci fosse un motivo legittimo per cui eravamo esclusi e perseguitati dai nazisti.
Wally: L’unica cosa che mi viene in mente a proposito è che mio padre ebbe sempre l’impressione che non venissi affatto preso di mira nel nostro villaggio. Pensava che fossi perfettamente felice, sempre. E questo ovviamente non era vero.
Chaya: Gli adulti spesso pensano che i bambini piccoli non soffrano più di tanto perché i grandi che si prendono cura di loro fanno del loro meglio per proteggerli. Sono così preoccupati della loro incolumità che non riescono ad immaginare che i bambini abbiano preoccupazioni o ansie nonostante le migliori intenzioni dei loro genitori di proteggerli da qualsiasi pericolo.
Wally: Mio padre mi diceva «Ridevi e cantavi sempre» e, incredibile a dirsi, avevo una bella voce all’epoca, ma ero molto spaventato e mi sentivo spesso triste.
Ari: Quindi cosa credi che sia successo? Alla tua voce, intendo.
Wally: Davvero, chiedi alle persone nel villaggio, saltavo sul carro e cantavo!

Gefen: (canzonandolo) Forse la gente del villaggio non sapeva distinguere se eri intonato oppure no!

Chaya: È un po’ tirato per i capelli, ma non potrebbe essere che tu abbia perso la tua intonazione dopo aver lasciato la Germania perché non volevi più parlare tedesco? E con la perdita della lingua e di tutto quello che ti sei dovuto lasciare alle spalle, può darsi che tu abbia perso la tua capacità di cantare?

Wally: Volevo così tanto essere come gli altri bambini. Vi racconto questo aneddoto: il mio compleanno è il diciotto aprile, il compleanno di Hitler era il venti e in quell’occasione c’erano sempre grandi sfilate per celebrare il suo compleanno. Ricordo che un anno ci rimasi molto male perché nessuno mi aveva fatto gli auguri per il mio compleanno, niente. Mi ricordo del venti aprile, le persone che vivevano nella nostra stessa strada si erano radunate insieme, vestite con le loro uniformi naziste, per vedere la banda sfilare a passo di marcia. Tutti avevano alzato il braccio facendo il saluto nazista “Heil Hitler”. Anch’io avevo alzato il braccio come tutti gli altri, ma mio padre mi aveva abbassato di colpo la mano dicendomi, «Das tun mir nit! [Noi non lo facciamo]», ma io non sapevo il perché. Herb [il fratello di Wally] dice che all’epoca lui leggeva già i giornali e ascoltava la radio, mentre io ancora no.
Ari: Poveretto! Sarai stato molto confuso. Non dimenticare però che Herb aveva cinque anni più di te.
Wally: Essendo il più piccolo, ero in una situazione molto ambigua (risate).
Miriam: È sempre così per il più piccolo, credimi! Pensi che i bambini ebrei durante la guerra credessero che c’era qualcosa che non andava in loro perché erano perseguitati e dovevano nascondere il fatto di essere Ebrei? Mamma ha detto di non aver avuto quella sensazione.

Wally: Chi proveniva da un ambiente sociale integrato, probabilmente aveva l’impressione che ci fosse qualcosa di sbagliato perché gli Ebrei integrati non avevano mai avuto l’impressione che ci fossero delle differenze tra loro e i cristiani. Ma qui proveniva da una famiglia religiosa, aveva una base più solida e sapeva da sempre che essere Ebreo voleva dire essere diverso.
Lasciamo Ammoeneberg e torniamo alla macchina. Gefen guida in direzione di Roth, fino al nostro hotel. L’Hotel Bellevue si trova in cima ad una collina e all’esterno ha un bel giardino con un terrazzo in pietra. Mentre Wally guarda l’orizzonte, gli appezzamenti di terreno verdi e gialli gli ricordano di nuovo Israele. « È proprio come Ma’aleh (Hahamisha)» dice. [Ma’aleh Hahamisha è il kibbutz sui monti della Giudea in cui Wally lavorò per più di un anno nel 1952-1953]. Qui la terra è rossastra-marrone e il profumo di pini è ovunque. Sì, proprio come in Israele.
Facciamo il check-in, portiamo in camera i nostri bagagli e siamo pronti per esplorare il mondo di Wally. Avrà bisogno del nostro sostegno quando visiteremo il suo villaggio. Ci fa attraversare il villaggio, ma non lo esploriamo e ci guida invece lungo la strada che porta al cimitero ebraico e ad un bosco nelle vicinanze. Una recinzione circonda il cimitero. Il cancello è chiuso, ma entriamo ugualmente, scavalcando la recinzione. È tutto in ombra e fresco. Regna il silenzio più assoluto. Siamo accarezzati da una brezza fresca, siamo sul Geyersberg, la collina sulla quale si trova il cimitero.

Il cimitero sulla Geyersberg
Ci guardiamo intorno osservando il terreno e le lapidi. Lentamente iniziamo ad abituarci alle scritte sulle lapidi e cerchiamo nomi famigliari, ma è impossibile distinguere le scritte o le lettere sulle pietre –sono troppo sbiadite o irriconoscibili. Il cimitero è trascurato, le lapidi sono inclinate di lato, in modo irregolare. Alcune sono rotte e altre si stanno sbriciolando e il muschio rampicante minaccia di ricoprire tutto. Anche qui il terreno è rossiccio e i nostri sandali calpestano gli aghi di pini.
Chaya: Fate attenzione, mi raccomando, non volete rischiare di farvi male qui.
Wally cerca la tomba di sua madre. Percorriamo tutto il perimetro del piccolo cimitero, leggiamo quello che è ancora leggibile, ma non riusciamo a trovare la tomba di Selma Stern Roth. Cerchiamo il bisnonno di Wally, sua nonna, i suoi zii, ma non riusciamo a riconoscere nessuno dei loro nomi. La lapide di sua madre non c’è, è sparita. Dovremmo prendere provvedimenti per rimpiazzare la lapide.
Scavalcando nuovamente la recinzione, lasciamo il cimitero e Wally ci indica la foresta che abbiamo di fronte.
Wally: Dopo la morte di mia madre, venivo sempre qui da ragazzino, lo trovavo un posto molto confortante.
Nella radura
Attraversiamo i campi di grano ed entriamo nel bosco. Faceva caldo a valle, ma qui all’ombra della foresta siamo al fresco e ci sentiamo inaspettatamente sereni. Wally ci parla di Erdman, il suo amato bassotto che fu il suo inseparabile compagno. Erdman lo accompagnava ovunque, dovunque andasse per fare una passeggiata, nel giardino, o in casa, Erdman lo seguiva. Dopo la morte della madre di Wally, Erdman gli divenne particolarmente caro. Quando risalivano la collina di Geyersberg e poi entravano nella foresta, Wally e Erdman si sedevano per terra, di fianco al loro albero preferito e Erdman si accucciava talmente vicino che Wally poteva sentire il calore del suo corpo e il battito del suo cuore.
Wally: «Su in alto, oltre gli alberi, dietro le soffici nuvole bianche» immaginavo di vedere mia madre e pensavo che mi stesse guardando. Quando chiesi a mio nonno di mia madre, mi disse che era lì che era andata.
Per Wally ed Erdman, queste erano ore di pace. Wally compose poesie e canzoni esclusivamente per Erdman, per sua madre e per sé stesso.
Ciascuno di noi cerca un albero al quale appoggiarsi e Wally continua il suo racconto. Da come parla di sua madre, intuiamo che doveva essere il suo figlio preferito. Rimpiange profondamente di non aver avuto il permesso di partecipare al suo funerale. Non c’è stata una vera e propria chiusura per lui. Capisco bene il suo dolore perché anch’io sono dovuta rimanere a casa nel giorno del funerale di mio padre.
Gefen: Papà, cosa ricordi del periodo prima di lasciare la Germania?

Wally: Vi ho raccontato del giorno in cui abbiamo dovuto dar via Erdman? Papà disse che siccome non avremmo potuto portarlo sulla nave con noi, doveva affidarlo ad una buona famiglia e ne trovò una che però viveva in un altro villaggio. Il giorno in cui Erdman ed io ci separammo fu troppo doloroso per riuscire parlare, così corsi via, rifugiandomi in casa e papà ne approfittò per portare via Erdman. Erdman però era un cane molto intelligente e non accettò la decisione di papà: il giorno in cui arrivò nella sua nuova casa, si sedette davanti alla soglia dell’entrata in silenzio e la sera scappò via. Corse fino a tornare a casa nostra –una bella distanza!– ma papà lo riporto dai suoi nuovi padroni. Fu doloroso lasciarlo andare di nuovo, ma dovevamo farlo, non avevamo scelta.

Miriam: Ti hanno mai tormentato perché eri Ebreo?

Wally: Non così tanto in realtà, però ebbi degli incontri spiacevoli con alcuni tedeschi anti-semiti. Penso di avervi già raccontato di quello che successe quando avevamo ancora il permesso di andare nelle scuole normali e di come venni avvicinato da alcuni ragazzoni che non conoscevo. Probabilmente venivano da un altro villaggio. Mi presero in giro e iniziarono a chiamarmi “sporco Ebreo”, poi presero il mio astuccio per le matite e spezzarono tutte quelle che avevo. Infine, spaccarono anche l’astuccio e lo buttarono via. E probabilmente vi ricordate della storia che vi ho raccontato a proposito del mio insegnante: un giorno offrì un premio al bambino nella classe che avesse finito per primo l’esame di matematica. Siccome allora ero bravo in matematica, feci in fretta e finii per primo. Andai alla cattedra e consegnai il mio esame all’insegnante che lo guardò e mi disse «Quest’esame non è per le persone come te» e con un sorrisino accartocciò il mio foglio e lo buttò nel cestino.

Questo accadde quando ancora andavamo a scuola con i Gentili (non ebrei). Dopo il 1936 non era permesso a nessun bambino ebreo di frequentare alla scuola del villaggio, così per un po’ di tempo un insegnante ebreo venne da un altro villaggio per farci scuola in casa. Tuttavia, a quel punto –grazie a Dio– e grazie ai parenti della nonna Toni negli Stati Uniti, avevamo ricevuto un permesso scritto e ci stavamo già preparando ad emigrare dalla Germania.

Ari: Le Leggi di Norimberga non vennero scritte nel 1933 quando Hitler salì al potere?
Wally: No, non vennero subito messe in pratica. Non dimenticare che quando Hitler salì al potere l’ostilità nei suoi confronti fu molto forte. Vinse infatti le elezioni per un soffio. Molti dovettero morire assassinati e brutalità terribili dovettero essere perpetrate prima che prima che Hitler riuscisse a consolidare il suo potere. Anche molti non-ebrei vennero uccisi, erano capofila dei movimenti socialisti e comunisti. I tedeschi non si piegarono subito a Hitler, accaddero molte cose: molte brave persone vennero uccise e i tedeschi persero quasi 15 milioni di persone durante la guerra. Le prime Leggi di Norimberga vennero attuate nel 1935. Si trattava di editti: gli Ebrei e i Gentili non possono sposarsi tra di loro, i Gentili non possono lavorare per gli Ebrei, gli Ebrei non possono praticare le loro professioni, gli Ebrei non possono fare gli insegnanti o i giudici, i Gentili non possono comprare beni dagli Ebrei, i bambini ebrei non possono andare a scuola con i bambini tedeschi, e così via.
Ari: Mamma, tocca a te parlare adesso. Raccontaci di Luzer.

Ari sa che la questione di Luzer e il fatto che faccia parte della nostra famiglia è un argomento molto delicato di cui parlare nella nostra famiglia estesa. Nonostante ciò, tra di noi famigliari più stretti parliamo apertamente delle relazioni difficili.
Wally: Le storie della mamma le ascolterete più tardi, quando andremo in Francia. Luzer fa parte di quella storia, di quando loro erano a Nizza, quindi dovrete aspettare fino a quando saremo lì.
Lasciamo il bosco, prendiamo la macchina vicino al cimitero e ritorniamo al villaggio passando sopra il ponte sul fiume Lahn. Le strade, ora, sono asfaltate.

La vecchia casa di Wally
Cerchiamo la casa di Wally, ma non la riconosce. Guardando più attentamente, vediamo una casa con la data del 1774 incisa sul mattone frontale che delimita le fondamenta. È quella. Wally riconosce la sua veccia casa. Bussiamo alla porta e siamo accolti da un uomo che ci guarda con aria sospettosa. Deve aver saputo che una famiglia di stranieri è arrivata in città, nulla passa inosservato in un piccolo villaggio. Wally gli spiega chi siamo e assicura all’uomo di voler solamente guardare la casa per mostrare a sua moglie e ai suoi figli dove viveva una volta. Il proprietario accetta con riluttanza. Ci aggiriamo per la casa, ristrutturata rispetto a com’era una volta, e il proprietario mostra a Wally un grosso coltello che in passato veniva usato per uccidere i maiali e preparare le salsicce. Wally riconosce il coltello di suo padre! Poi, proprio mentre stiamo per andarcene, Wally vede una vecchia radio della Phillips nell’angolo dell’entrata e sussurra «Questa è la nostra radio, ne sono quasi sicuro. Qui era dove ci mettevamo ad ascoltare le notizie e i discorsi sbraitati da Hitler». Wally vorrebbe dare un’occhiata in giro per vedere quali altri oggetti del passato potrebbe trovare, ma proprio in quel momento, arriva il figlio del proprietario che si offre di mostrarci il fienile, il cortile e la vecchia pompa dell’acqua ormai arrugginita ma ancora funzionante. Facciamo a turno per metterla in funzione e assaggiare l’acqua fresca del pozzo. Nessuno proferisce parole per un po’.
La sinagoga ebraica
Passiamo in macchina su una strada parallela alla vecchia casa di Wally e noto un edificio grigio di piccole dimensioni con un tetto a due spioventi. Questa casa non sembra aver subito alcuna ristrutturazione a giudicare dallo stato in cui si trova. I miei occhi si muovono lungo le finestre che sono incorniciate da archi. «Guarda quelle finestre» dico «in alto sono a forma di arco, come quelle delle sinagoghe. Wally, può darsi che sia…?»
Ci fermiamo e proviamo ad entrare. Il vicino che abita nell’abitazione accanto, intuisce le nostre intenzioni, viene ad aprirci la porta e ci mostra l’interno.
«Quest’edificio era una sinagoga un tempo; negli ultimi quarantadue anni è stato utilizzato per conservare il grano, per questo è ancora in piedi. Dovevano mantenere il luogo asciutto per evitare che il grano marcisse».

L’interno è sporco e polveroso, ma dietro la tappezzeria sudicia intravediamo parte della tappezzeria originale sul soffitto e intravediamo anche alcune stelle bianche e blu attraverso lo strato di sporco. I ragazzi notano la presenza di un balcone al piano di sopra che doveva essere un Mehitzah [una struttura che separava la sezione delle donne da quella degli uomini], ma non c’è più nessuna scala che porti al balcone.

Cos’è stato più scioccante? Ritrovare la vecchia casa di Wally o scoprire la sua sinagoga devastata? Entrambe sono state invase e rovinate. Tutti abbiamo l’aria di aver visto abbastanza per oggi così i ragazzi riportano le chiavi al vicino.

La gente del villaggio
Mentre ci incamminiamo verso la strada, incontriamo alcune persone del villaggio: il signor Wenz, Adam e un altro signore che conosceva il fratello di Wally. Sono tutti molto socievoli. Adam conosceva il padre di Wally perché aveva lavorato per lui e ci racconta che la nostra famiglia preparava la miglior minestra di lenticchie. Ci racconta anche che nel 1941, dopo che la famiglia Roth partì per l’America, lui portò spesso del pesce alle famiglie di ebrei che erano rimaste nel villaggio. Venivano a bussare alla sua finestra nel retro della casa, in modo che nessuno li vedesse e prendevano qualsiasi cosa Adam fosse riuscito a racimolare per loro.
Proseguendo nella passeggiata, troviamo un piccolo negozio di alimentari di cui Wally si ricorda bene. A questo negozietto all’angolo compriamo alcuni cibi che ci ricordano il passato: Pflaumenmuss [marmellata di prugne], Gruenkern [spelta verde] per la minestra e metà di un grosso filone di pane contadino. Tornati in macchina, passiamo di nuovo vicino alla casa di Wally e vediamo i Pfeffers sull’altro lato della strada. Erano dei vicini di casa di vecchia data e le loro famiglie si conoscevano bene. Il signor Pfeffer ci invita ad entrare a casa sua e, con un po’ di esitazione, lo accontentiamo. Wally scambia ricordi con la famiglia: Pfeffer ricorda che i Roth erano una brava famiglia, sempre socievole, «ma non potevi mai essergli troppo vicino perché non andavano mai a mangiare a casa di un Gentile».
«Quando non vai a mangiare a casa di un vicino, non puoi mai diventare davvero famigliare» continua Pfeffer. Ci offre della salsiccia e la rifiutiamo perché seguiamo una dieta kosher, come facevano i Roth una volta. «Ach! Non sei come tuo fratello!» dice Pfeffer a Wally. «Ad Herbert è piaciuta la nostra salsiccia quando l’ha assaggiata l’anno scorso, quando è venuto a farci visita».

Chiedo alla madre di Pfeffer, una signora ormai anziana, di raccontarci quello che si ricorda di Wally quando era giovane. Ci dice «Der Walter war so jung als seine Mutter starb, und Er war auch sehr traurig. So habe Ich ihn jeden Tag bei mir nach Hause gebracht, und Ich sass mit ihn Stunden lang. Er hat meine Hand gehalten und wollte mich nicht gehen lassen ohne ihn. Ja, ja, er sass auch Stunden lang auf meinen Schoss» [Walter era così giovane quando sua madre morì ed era molto triste. Allora, ero solita portarlo a casa mia tutti i giorni e mi sedevo con lui per molte ore. Mi teneva la mano e non mi lasciava andar via. Sì, sì, si sedeva in braccio a me per delle ore intere].
Dopo aver bevuto qualcosa di fresco e un paio di birre, ce ne andiamo e ci incamminiamo lentamente verso il ponte. Lì, incontriamo altri abitanti del villaggi: alcuni sono a piedi, altri in bicicletta; sembra che ci stiano aspettando. Alcuni ricordano Wally e Irene (la sorella di Wally e Herb) e anche Herb e la sua matrigna, Toni; si ricordano anche della mamma di Toni che venne deportata a Riga. Un’altra signora ricorda che quand’era giovane, dopo che la vita iniziò a diventare difficile per gli Ebrei, era solita portare frutta e latte alla madre di Toni per poi correre via per paura di essere vista e denunciata alla Gestapo. Proseguiamo lungo la strada e una signora mi chiede di dove sia il mio accento tedesco e le spiego di essere nata a Berlino. Mi risponde: «Oh, sì, l’avevo pensato, voi e il vostro accento hoch Deutsch [“Alto-tedesco” anche inteso come “snob”]» Il pensiero più gentile che riesco a formulare è «Beh, questa certo che la diversità non la tollera molto bene».
Discussioni e diverbi con i tedeschi del villaggio

Alcuni uomini iniziano a fare conversazione con noi e siamo coinvolti in due discussioni parallele. I nostri figli, Miriam, Gefen e Ari parlano a lungo con il figlio dei Pfeffer; l’argomento generale della loro conversazione è “I tedeschi dovrebbero essere ritenuti tutti responsabili per le azioni perpetrate dai nazisti quarant’anni fa?”.

Wally ed io invece iniziamo a parlare con gli uomini più anziani. Ci raccontano di aver partecipato alla guerra e delle perdite che hanno subito. Due di loro erano al fronte in Russia nel 1942 e parteciparono agli strenui combattimenti contro i russi, un altro perse numerosi compagni durante la guerra. «Sei fortunato Walter» dice «ad essertene andato in quel periodo. Almeno non sei dovuto andare in guerra».

Un uomo di Niederwalgren gli chiede «Perché sei tornato?». Walter, un signore più piccolo di statura con i capelli grigio/biondi rimbrotta all’altro «Ach du lieber! Eri ist hier gekommen um seine Heimat su sehen!» [Oh, caro mio, è tornato qui per rivedere la sua madre patria!].
Walter aveva prestato servizio in Nord Africa nel 1940 e era stato catturato nel 1941 per poi essere mandato in Michigan come prigioniero di guerra. Pfeffer, invece, venne ferito al fronte in Russia nel 1941 e venne rimandato a casa. All’epoca aveva diciott’anni e Walter ne aveva diciassette e oggi i due sono parenti acquisiti.

Pfeffer ripete «Sei fortunato ad essertene andato, Walter, così hai scampato tutto!».
Wally è scioccato. «Fortunato?» Sicuramente. Ma, rovesciandole carte di Pfeffer, gli dà una stoccata di risposta e chiede «E com’è stato per voi qui, dopo che in nazisti hanno preso il potere?».
Pfeffer non si fa prendere alla sprovvista e risponde immediatamente «Le cose si sono evolute così velocemente che quelli di noi che volevano resistere non hanno potuto farlo o se lo facevano venivano fatti mettere in fila davanti ad un muro e fucilati. Hitler disse che voleva perseguitare gli Ebrei e nessun altro, ma chiaramente non era vero».
Wally: E cosa mi dite dell’invasione della Russia, della Francia, dell’Olanda?
Pfeffer: Diciamo che le cose sono cambiate ora. Gli Ebrei sono un popolo, hanno la loro terra e non sono più perseguitati.
Wally: Sì, ma le gli unici che vollero sterminare gli Ebrei e che idearono un piano per un loro totale annientamento furono stati i nazisti. Miriam, che ci aveva raggiunti per registrare le nostre conversazioni con le persone più anziane, mi rivolge un gran sorriso.
Arriviamo al ponte e ci congediamo. Pochi passi dietro di noi Gefen e Ari stanno parlando in ebraico.
[Gefen registra la seguente conversazione]

Gefen: Quali sono le tue impressioni degli abitanti di Roth?

Ari: Quello che provo in questo momento è rabbia, ma anche un po’ di speranza. Forse un giorno, le persone riusciranno a capirsi. Dopo tutto, noi siamo riusciti a parlarci oggi!

Gefen: Ma come posso capirli? Queste persone ci invitano a mangiare e bere a casa loro, ma sono le stesse che non hanno fatto nulla quando sono arrivati i nazisti!

Ari: Ti chiedi perché non si sono ribellati? Magari non potevano, sai, non tutti possono essere dei John Reed, come Warren Beatty.

Gefen: Sì, ma con loro è come se nulla fosse successo. Le persone si dovrebbero comportare come degli esseri umani, e la maggior parte di loro non l’ha fatto.

Ari: E cosa pensi dell’attuale situazione in Libano con Israele che chiede ai cittadini ebrei di uccidere gli Arabi?

Gefen: Sì, ma ci sono persone in Israele che sono contrarie a queste linee politiche del governo e hanno organizzato delle manifestazioni e delle petizioni per protestare contro di esse. Cos’ha fatto invece la gente qui quando c’era il nazismo?
Ari: Hai ragione. Ci sono persone che non hanno una coscienza. Prima, quando ero seduta nel salotto dei Pfeiffer, avevo come la sensazione che sì, siamo tutti esseri umani, ma siamo anche diversi. Non è solo il fatto che loro sono biondi e noi abbiamo la testa coperta da riccioli scuri, ma è anche il fatto che loro vivono con un passato diverso alle spalle. Ci sono differenze tra le persone.
Dopo queste discussioni chiedo a Wally di raccontarci del suo villaggio, della sua storia e degli Ebrei.
Wally: Gli Ebrei hanno vissuto in questa zona fin dal tredicesimo secolo. Nel villaggio in particolare si hanno tracce dell’esistenza degli Ebrei dal 1630. Nel diciannovesimo secolo, ci vivevano quasi 200 Ebrei, nel 1933 vi erano solo più otto famiglie ebree, all’incirca cinquanta persone. Nel 1939 vi erano solo più cinque famiglie, circa trenta persone in tutto, mentre la popolazione cristiana del villaggio negli anni Trenta era di circa 600 persone. Oggi non ci sono più Ebrei nel villaggio. Ci sarebbe molto di più da raccontare sulla nostra famiglia e sulla sua storia, ma sarà per un’altra volta.
Decidiamo di andare a Marburgo e visitare quest’antica città universitaria. È una città ricca di storia e Wally ci spiega che Marburgo era la residenza principale dei regnanti dell’Assia. Questo era il loro castello, in cima alla montagna e qui c’è la grandiosa Chiesa di Santa Elisabetta che divenne molto famosa al tempo di Martin Lutero. Anche i fratelli Grimm, famosi per le loro fiabe, vissero a Marburgo e la sua università è stata un polo universitario sin dal Medioevo. Herman Cohen, un grande filosofo Ebreo, visse qui e fu qui che studiò Hannah Arendt, la celebre filosofa e studiosa di scienze politiche ebrea della metà del ventesimo secolo. Inoltre, la comunità ebraica di Marburgo risale all’anno 1300. La sua sinagoga venne distrutta durante la Notte dei Cristalli.

L’architettura di Marburgo è in stile gotico e il paesaggio sembra quello delle fiabe. Passiamo per la Judengasse (il ghetto) e ci sarebbe molto da ricordare qui, ma non rimane più nessun segno del passato. Siamo pronti per pranzare, ma ci dobbiamo accontentare di un ristorante cinese perché purtroppo non c’è nulla di più tradizionale. Scherziamo molto per allentare un po’ la tensione e stabiliamo ufficialmente che il cibo è buonissimo; poi, torniamo indietro e passeggiamo verso il fiume per rilassarci.

Ari: Sulle rive del fiume Lahn, fuori Roth, ascoltiamo ancora una volta i suoni della natura: le oche starnazzano, i cigni nuotano nel fiume o sono pigramente seduti vicino al torrente gorgogliante. «Quaack» dice il piccolo cigno «quaack» dice papà cigno, «quaack» dice l’oca che sta morendo. Il fiume Lahn, gli sguardi stupiti dei ragazzi che guardano con meraviglia degna di Wordsworth. Questa è una passeggiata a Roth.
Torniamo all’hotel Bellevue per la nostra ultima notte qui e per un’altra delle nostre riunioni famigliari: dove andiamo domani? Da Monaco a Dachau, il campo di concentramento? E se decidiamo di andare a Dachau, perché andare proprio lì?

Discussione in hotel
Chaya: Perché andare a Dachau adesso? Perché non Monaco?
Miriam: Vogliamo mantenere tutto nella giusta prospettiva. Siamo venuti in Germania e abbiamo trovato delle cose piuttosto piacevoli, come questo bel paesaggio, ad esempio. Allo stesso tempo però, ho bisogno che i miei sentimenti di rabbia verso la Germania trovino in qualche modo conferma.
Ari: Prima stavamo dicendo che vogliamo vedere la Germania di oggi, non vogliamo avere soltanto vecchi ricordi. Quello che esiste oggi è anche quello che esisteva prima della Seconda Guerra Mondiale. Certamente, quello che abbiamo visto oggi è stato molto triste, se pensiamo a quanto è stato alterato e portato via, ma è altrettanto vero che abbiamo anche visto delle cose bellissime. Monaco mi piacerebbe perché rappresenta una Germania che è stata ricostruita. Insomma, sono molto combattuta su dove voglio andare domani, perché so che vogliamo anche vedere la prova tangibile di tutti gli orrori commessi dalla Germania.
Chaya: Stiamo qui a parlare di come sia tranquilla e bella la campagna tedesca, eppure devo confessare che la sensazione di nausea che mi è venuta quando siamo arrivati in Germania, non se n’è ancora andata. Non posso credere che abbiamo guidato fino a qui senza limiti o frontiere. Niente documenti, niente polizia, come se nulla fosse mai accaduto. Anche ritornare all’hotel è stato altrettanto intollerabile: entriamo e vediamo dei tedeschi seduti attorno ai tavoli che leggono poesie, discutono di letteratura, mangiano, leggono. Sono persone così colte. Infine, entrare nel villaggio di papà ha evocato qualcosa di completamente inaspettato, è stato sereno ed estremamente commovente.

Ari: Non riesco a separare l’immagine del villaggio da papà. Ma sono d’accordo con te, girare per la Germania è stato strano. Poi quando siamo scesi e siamo andati fino al cimitero e poi nel bosco, sembrava che papà fosse proprio nel suo ambiente.

Gefen: La tua città natale mi ha scioccata, mi sentivo estraniata. Quello non è un luogo ebraico, non riesco a riconciliarlo con te, papà.

Miriam: Tutto questo mi ricorda un po’ il mio primo viaggio in Israele. Quando sono partita, mi aspettavo di avere una sorta di rivelazione divina, ma non fu così. Similmente, quando siamo arrivati in Germania mi aspettavo di provare l’odio e il disgusto più assoluti, mentre in realtà non è stato esattamente così.
Lunedì 2 agosto 1982

Dopo la nostra discussione della notte scorsa decidiamo di andare a Dachau e Augsburg e di non andare a Monaco. Partiamo da Wolfhausen alle nove e arriviamo alle quattro e un quarto del pomeriggio quando oramai è già molto tardi e il museo sta per chiudere. Wally ed io raccontiamo ai ragazzi quello che abbiamo imparato di Dachau dalle nostre letture: fu uno dei primi campi di concentramento, situato nella periferia della piccola cittadina di Dachau, ad una ventina di kilometri da Monaco. Himmler annunciò l’apertura del campo nel 1933 e i primi ad esservi trattenuti come prigionieri furono i nemici politici del regime nazista; erano quasi tutti comunisti e social democratici. Il Nazional Socialismo terrorizzò tutti gli oppositori e torturò gli oppositori politici fino ad una poltiglia sanguinolenta; molti vennero internati nel campo di Dachau. Dopo la Notte dei Cristalli, tra il 9 e l10 novembre 1938, 10.000 ebrei da tutta la Germania vennero deportati qui. Poi, quando la guerra era ancora tutto fuorché finita, migliaia di prigionieri vennero obbligati con la forza a compiere la marcia della morte negli ultimi tre giorni prima della fine. Molti erano malati e ridotti a scheletri viventi e non sopravvissero all’epidemia di tifo che stava imperversando nella maggior parte dei campi, incluso Dachau.
Sopra il cancello del campo si legge ancora Arbeit Macht Frei (Il lavoro rende liberi). Vediamo la torre di controllo e i crematori. Le baracche, i bagni e l’edificio delle prigioni parlano di quello che è successo qui. Camminiamo fino al monumento commemorativo e al museo. Si sta facendo tardi e il museo sta per chiudere, così come il resto del campo. Ci tratteniamo ancora un po’ dopo che le guardie chiudono il museo, osservando ancora le baracche, la torre, il cancello e il fossato. Non dimenticheremo, ma per il momento stiamo in silenzio. Nessuna domanda, nessun commento. Come testimoni di seconda generazione sentiamo di avere il dovere di registrare le nostre emozioni del momento. Ma nessuno parla. Entriamo in macchina e ci dirigiamo verso Augsburg.

Il viaggio ad Augsburg
Wally parla della storia dell’Europea. Crede infatti che una prospettiva storica possa aiutare ad integrare le nostre reazioni emotive nei confronti di Dachau. Parliamo della Germania, della sua relazione con gli Ebrei e delle nostre relazioni con la Germania oggi e nel passato. Wally spiega cos’è successo nelle conferenze di Yalta /Potsdam prima della fine della Seconda Guerra Mondiale.
Entriamo ad Augsburg e alloggiamo ad un Holiday Inn, un pezzo di cara vecchia America nel cuore della Germania. Guardiamo la TV e per caso capitiamo su un canale in cui mostrano il film adattato alla televisione, Holocaust, in tedesco, e ovviamente lo guardiamo. Più tardi, andiamo a farci una nuotata in piscina. Vivere un po’ di America sotto lo sguardo di un bagnino tedesco è davvero uno shock culturale. Prevalgono ordine, noncuranza e rigidità. Volete un asciugamano in più? No, non è possibile. Possiamo portare i nostri asciugamani dalla nostra camera al piano di sotto? No, è assolutamente vietato! Anche sedersi sull’asciugamano nella sauna non è consentito, questa è la regola. Ma proprio quest’ultima regola è la goccia che fa traboccare il vaso. Vado dritta alla reception e l’addetto diventa il bersaglio della mia rabbia, gli urlo addosso « Ma cosa cavolo avete? Cosa sono queste regole senza senso? Quand’è che voi tedeschi imparerete che le vostre regole sconsiderate e arbitrarie sono state la ragione della vostra rovina?». Poverino, non seppe mai cosa mi era preso, e in realtà nemmeno io.
Martedì 3 agosto, 1982
Stiamo andando a Verdun. Uscire dalla Germania è un sollievo. Per bella che sia la campagna, la lingua e il comportamento dei tedeschi hanno già fatto abbastanza. Durante il viaggio, Wally ci racconta della Prima Guerra Mondiale: è stato nel Verdun, nel 1916, che è avvenuta una delle battaglie più cruente che ha causato un altissimo numero di morti. La Germania visse l’amarezza e l’umiliazione di aver perso la guerra alle quali fecero seguito la crisi economica e il malcontento politico e sociale che portò all’ascesa di Hitler.
Visitiamo i tunnel costruiti dai francesi: si tratta di enormi corridoi sotterranei costruiti per proteggere le loro truppe e da usare come tana per attaccare il nemico di sorpresa. I tunnel sono ancora intatti: osserviamo i posti in cui dormivano i soldati, le loro camere le loro aree comuni. Le fortificazioni sono come cittadelle sotterranee, che avrebbero dovuto essere impenetrabili per sempre e invece, sappiamo che non fu così. Durante la Seconda Guerra Mondiale, i nazisti invasero facilmente la Francia aggirando tutte le fortificazioni che erano stesse messe in opera.

Visitiamo i campi di battaglia e vediamo un ampio spiazzo d’erba e coperto croci. Qui morirono circa 75.000 uomini. Lungo la strada incontriamo persone che ci guidano in un luogo dov’è possibile vedere un filmato di venticinque minuti sulla battaglia di Verdun. Verdun era una cittadella, fu un bastione di resistenza e attacco nella Prima Guerra Mondiale. La fortezza di Verdun fu una delle principali barriere lungo la via per Parigi, rappresentò il principale obiettivo della campagna tedesca del 1916 e il fallimento nel averne controllo fu fatale alla Germania.
Ci sono talmente tante informazioni da assimilare. Mi chiedo come i nostri ragazzi stanno assorbendo tutta questa storia. E il meglio deve ancora venire, non è nemmeno una settimana che siamo in viaggio. Terminiamo la giornata con una camminata lungo il canale e passiamo la notte in un piccolo auberge (hotel) vicino alla strada che ci porterà poi a Parigi.
Mercoledì 4 agosto 1982
Da Verdun a Parigi
Dopo aver percorso strade di campagne e autostrade, arriviamo finalmente a Parigi. Orgogliosi di essere riusciti a manovrare la macchina tra le piazze estremamente trafficate, troviamo il nostro hotel Vendome. Il titolare dell’hotel ci propone tre belle stanze e rimaniamo piacevolmente colpiti dalla stravaganza degli arredi e dalla comodità delle sistemazioni. Anche i ragazzi sono senza fiato «È come l’hotel Plaza a New York» dice Gefen, e non possiamo che essere d’accordo. La stanza di Ari è una soffitta in stile parigino sotto un tetto a spiovente con una finestra che dà sul tetto. Con una stanza così, Ari sente il bisogno di sfogare la sua vena poetica e quando ci raggiunge per fare colazione il mattino seguente, si offre generosamente di condividere la sua epifania della notte precedente.
Poesia di Ari: Canzone basata sulle note di Officer Krupke in West Side Story.
1.
Caro ufficio del turismo
Ecco qui il mio lamento
Mi hai promesso una camera rustica
Ma rustica non è.
Sono rinchiuso in una soffitta di lusso
Dove la cameriera tira i miei pantaloni a lustro
Perché i miei genitori mi hanno trascinato qui in Francia?
2.       
Immaginavo sacchi a pelo
E canzoni lungo la Senna
Mangiando solo pane e formaggio vero
Vivendo della mia penna.
Un Hemingway con mamma e papà
Non potrò essere mai
Perché i miei genitori mi hanno trascinato qui in Francia?

3.       
La mamma mi rimbrotta: “La maggior parte dei ragazzi al posto tuo gioirebbero un bel po’ ”
“Grazie molte”, le rispondo, “ma io la maggior parte dei ragazzi mai sarò”
“Allora fallo almeno per la tua famiglia, divertiti per noi”
Mi danno la mia stanza
E polemica non fo’.
Caro ufficio del turismo
Che cosa mai farò?
Con questo documento in mano, l’umorismo di Ari riesce a sollevare un po’ del peso che inizia a farsi sentire.
Giovedì 5 agosto 1982
Passiamo la mattinata al Louvre. Le gallerie sono gremite. Vediamo la Monna Lisa, Franz Hals, Diego Rivera, la Venere di Milo e la Vittoria alata di Samotracia ancora lì, in cima alla scalinata. Ricordo ancora le mie visite quotidiane al Louvre quando avevo sedici anni e mi viene in mente che è all’incirca l’età che ha mia figlia Miriam adesso. Io sarei andata con i miei genitori a fare un viaggio in Europa durante le vacanze estive per rivisitare il loro passato? Non lo so, ma ne dubito. Allora, perché stiamo imponendo questo viaggio ai nostri figli?

La nostra prossima tappa è la cattedrale di Notre Dame. Il tour è intenso, l’architettura gotica e le gargolle incutono sgomento e paura, soprattutto quando dopo aver lasciato la cattedrale, veniamo guidati alla memoriale agli Ebrei deportati nel 1942. Vorrei raccontare i rastrellamenti a Parigi al Velodrome d’Hiver nel luglio 1942, ma oggi non ci riesco.

Arrivati a questo punto, sentiamo il forte bisogno di stare con altri Ebrei, così camminiamo verso il quartier ebraico seguendo la rue de Rosiers. È un piccolo quartiere con strade strette, palazzi di tre o quattro piani, appartamenti piccoli illuminati dalla poca luce che durante il girono viene dall’alto. Stranamente, vediamo pochi Ebrei per strada. Ci guardiamo intorno e troviamo un locale dove cenare, poi torniamo all’hotel e ci rilassiamo parlando degli eventi della giornata.
Venerdì 6 agosto 1982
Parigi
La visita di ieri ha lasciato un segno doloroso. È difficile riuscire a fare i conti con i modi contraddittori in cui i francesi si sono comportati nei confronti degli Ebrei. Normalmente, guardiamo alla Rivoluzione francese (1789) per comprendere il significato degli ideali della Francia, visto che Liberté, Egalité et Fraternité fu proprio eletto a suo motto per eccellenza. È difficile pensare ai francesi se non ai nostri alleati più vicini dal punto di vista della filosofia e della prospettiva sul mondo. Dopo la sua ascesa al potere (nel 1799), Napoleone Bonaparte sviluppò un codice civile che contribuì enormemente a migliorare gli standard di vita dal punto di vista etico del popolo francese. Gli storici ritengono che garantire la libertà di culto ai cittadini francesi, protetti da queste nuove leggi, fu il suo contributo legislativo più significativo e duraturo. Inoltre, Napoleone fece tutto ciò in un periodo storico in cui la discriminazione era all’ordine del giorno. Offrì la cittadinanza ad Ebrei, Protestanti, e Massoni e aprì chiese che erano state chiuse per anni. Fu durante il suo regno che venne decretata l’abolizione dei ghetti ebraici e dell’obbligo per gli Ebrei di indossare il berretto giallo e la banda sul braccio, e dichiarata la libertà di culto per Ebrei e Protestanti. Inoltre, fu Napoleone ad istruire le autorità affinché agli Ebrei fosse permesso di vivere dove volevano. Quando a scuola studiai prima la rivoluzione francese e poi il personaggio di Napoleone, ne rimasi molto colpita. Guardando al passato, mi sembra impossibile comprendere gli atteggiamenti contrastanti dei francesi nei confronti degli Ebrei per più di 100 anni: ci furono vari cambiamenti nelle forme di governo, durante i quali i diritti degli Ebrei vennero inizialmente aboliti, poi restaurati, poi nuovamente aboliti. Gli Ebrei infatti furono nuovamente perseguitati quando il fascismo prese piede negli anni Trenta, prima della guerra. Com’è possibile che i francesi abbiano influenzato il pensiero filosofico occidentale e poi si siano alleati con le leggi razziali di Vichy supportando i programmi di annientamento dei nazisti?

Tornati all’hotel Vendome, ci riposiamo un po’. Oggi, Wally e i ragazzi andranno sulla Tour Eiffel. Io invece rimango in hotel, ho bisogno di riposare un po’. Ci ritroviamo al Centro Pompidou dove tubi di vari colori costituiscono l’esterno del Museo di Arte Moderna che ospita opere di Magritte e Dalì: questo posto certo non vuole farsi ignorare e noi facciamo del nostro meglio per rispettare il suo desiderio.
Sabato 7 agosto, 1982
Parigi

È il giorno prima della nostra partenza da Parigi. Abbiamo lasciato per ultima la visita alla casa di Rodin, perché vogliamo goderci appieno le sue opere. I ragazzi hanno studiato le opere di Rodin a scuola ed sono entusiasti all’idea di vederle dal vivo. Osserviamo come l’artista dà vita agli oggetti che emergono dalla pietra dura e il modo in cui scolpisce finemente le sue figure per rappresentare la società, gli elementi essenziali del carattere umano, la passione dell’amore, la bellezza così come noi la idealizziamo e Dio…Lasciamo Rodin, con il cuore gonfio di emozione.

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