“LETTERA DA VARSAVIA” E LABORATORIO TEATRALE
Il progetto sul tema della cittadinanza ha coinvolto gli allievi dell’istituto "Soleri-Bertoni" anche nell’ambito di una rappresentazione teatrale diretta dal regista Valerio Dell’Anna. Tredici attori improvvisati, alcuni già con qualche piccola esperienza alle spalle, per una rappresentazione a grande impatto emotivo sul tema della Shoah.
Il copione si focalizza sulle vicende del ghetto di Varsavia, raccontate nell’opera di Zve Kolitz Yossl Rakover si rivolge a Dio. La storia di questo è libro è alquanto singolare: una testimonianza scritta e riadattata dall’autore in una sola notte, pubblicato dalla rivista argentina “ El diario israelita” come l’ultimo messaggio di un combattente ebreo del ghetto. L’opera successivamente sfuggirà di mano allo scrittore, a causa della pubblicazione in molti paesi del mondo in anonimo. Nel momento in cui Kolitz ha rivendicato la sua opera, è stato messo al centro di una lunga polemica con commenti poco piacevoli, per poi essere riconosciuto come il vero artefice del testo.
La storia è stata liberamente adattata e ridotta per renderla più consona alla rappresentazione teatrale e alle capacità dei ragazzi coinvolti, focalizzando l’azione sui momenti salienti dei bombardamenti sul ghetto e lo strazio della popolazione ebrea. L’argomento dell’olocausto si è rivelato molto attinente al tema in analisi, in quanto presenta le conseguenze estreme, ma non irreali, a cui può giungere un percorso di esclusione iniziato con la violazione del diritto di cittadinanza.
Con due ore pomeridiane a disposizione la settimana, gli allievi si sono impegnati in un lavoro sempre più coinvolgente, assistiti dal regista che aiuta i ragazzi sotto tutti i punti di vista, dalla recitazione all’intonazione. Buona la partecipazione dei giovani attori, che hanno messo a disposizione il loro tempo, normalmente dedicato allo studio, per questa importante iniziativa. Gli effetti speciali non sono molto rilevanti, in quanto si vuole focalizzare l’attenzione del pubblico sull’operato degli attori per valorizzarlo al meglio. Il “set” è momentaneamente composto dalle aule messe a disposizione della Caserma Mario Musso, ma successivamente verranno effettuate delle prove sul prestigioso palcoscenico del teatro Politeama.
Il regista Valerio Dell'Anna con gli attori |
La storia è stata liberamente adattata e ridotta per renderla più consona alla rappresentazione teatrale e alle capacità dei ragazzi coinvolti, focalizzando l’azione sui momenti salienti dei bombardamenti sul ghetto e lo strazio della popolazione ebrea. L’argomento dell’olocausto si è rivelato molto attinente al tema in analisi, in quanto presenta le conseguenze estreme, ma non irreali, a cui può giungere un percorso di esclusione iniziato con la violazione del diritto di cittadinanza.
Con due ore pomeridiane a disposizione la settimana, gli allievi si sono impegnati in un lavoro sempre più coinvolgente, assistiti dal regista che aiuta i ragazzi sotto tutti i punti di vista, dalla recitazione all’intonazione. Buona la partecipazione dei giovani attori, che hanno messo a disposizione il loro tempo, normalmente dedicato allo studio, per questa importante iniziativa. Gli effetti speciali non sono molto rilevanti, in quanto si vuole focalizzare l’attenzione del pubblico sull’operato degli attori per valorizzarlo al meglio. Il “set” è momentaneamente composto dalle aule messe a disposizione della Caserma Mario Musso, ma successivamente verranno effettuate delle prove sul prestigioso palcoscenico del teatro Politeama.
Prove dello spettacolo al "Soleri-Bertoni" |
Non ci resta che dare appuntamento a tutti gli interessati alla rappresentazione, per il 6 febbraio (sia al mattino per le scuole cittadine, sia nella serata) al Politeama, via Palazzo di Città 15, Saluzzo. Non mancate!
Mattia Racca.
Mattia Racca
"SONO
FIERO DI ESSERE EBREO"
Le
ultime parole della pièce
Nelle scene del lavoro teatrale una voce fuori
campo riporta le parole del protagonista, Josef Zalman detto Yosl. Egli si
trova in una delle pochissime case del ghetto che ancora non bruciano e
pronuncia queste parole: “Una morte rapida appare a tutti noi come una
salvezza, una liberazione”. Yosl ricorda poi di essersi nascosto in un bosco,
in cui aveva incontrato un cane malato, famelico e forse anche impazzito. I due
si guardarono e si capirono subito; il cane gli leccò le mani, egli lo
abbracciò e iniziò a piangere come forse non aveva mai pianto in vita sua. Si
vergognò davanti al cane di essere un uomo.
“Quelli che sono innamorati del giorno, del sole e
della luce non sanno quanta sventura ci ha portato il sole”-prosegue la voce; i
nazisti, infatti, al levar del sole, riprendono i bombardamenti.
Yosl, sua moglie ed i loro sette figli erano
fuggiti dalla loro città, Gradno, diretti al ghetto di Varsavia, dove si pativa
la fame ed i morti giacevano come stracci nella via.
Una bomba colpisce la moglie di Yosl, che cade a
terra con in braccio il più piccolo dei bambini; il padre lo salva portandolo
al sicuro, dopo averlo raccolto dalle braccia della mamma.
Rachele, una delle figlie, non rivela al padre il
suo piano per sfuggire dal ghetto ed esce senza il suo consenso con un’amica
della sua stessa età, per cercare un po’ di cibo. Le due bambine ebree, però,
non riescono a sfuggire alle guardie naziste, che si mettono subito ad
inseguirle, perché hanno osato cercare avanzi di cibo in un bidone delle
immondizie. Rachele, sfinita dall’inseguimento, cade a terra e i nazisti le
sfondano la testa; la sua compagna si salva dalle loro mani, ma avendo visto la
sua amica in quello stato, dopo poche settimane, impazzita, muore. Il quinto
figlio lo prende la tubercolosi e fu una liberazione - continua la voce -
mentre l’ultima dei sette fratelli fu uccisa in un rastrellamento di bambini
cominciato all’alba e durato fino a sera. Yosl prosegue dicendo: “Quel giorno,
dopo il tramonto, centinaia di famiglie ebree persero i loro figli. Ora è
giunto il mio momento...”
Egli però vuole vendetta e così quando un carro
armato nazista irrompe all’improvviso nella loro via, insieme ad alcuni
compagni lo bersaglia con bottiglie incendiarie; è un attacco a sorpresa e
infatti il carro prende subito fuoco e i nazisti, avvolti dalle fiamme, si
precipitano immediatamente fuori dall’abitacolo. “Ah se bruciavano”-prosegue la
voce - bruciavano come tutti gli ebrei che avevano incenerito, ma urlavano
molto più di loro, perché gli ebrei morivano in silenzio, con umiltà, invece
loro erano spacconi anche in punto di morte.
“Non ho più munizioni, ho a disposizione ancora tre
bottiglie di benzina e una sarà per me”- dice Yosl. All’inizio
dell’insurrezione erano in dodici su quel muro; alla fine, per poco, resta il
solo superstite, perché i suoi compagni sono tutti caduti, morti
silenziosamente.
La scena si chiude sulle sue ultime parole: “Sono
fiero di essere Ebreo”.
Erica Capra
Per
ulteriori approfondimenti sul tema del ghetto di Varsavia è consigliabile
leggere la tesina per l’esame di Stato dell’A.S. 2012/2013 di Michela
Rolando,ex- allieva dell’istituto Soleri. La tesina offre importanti spunti di
riflessione a partire dalla citazione di Marek Halter “ Il ghetto di Varsavia
rimane probabilmente il simbolo della rivolta ebraica armata contro il nazismo.
Ma è prima di tutto il simbolo della resistenza ebraica, come è stata ideata e
praticata nei secoli da generazioni di ebrei, all’oppressione, alla
persecuzione , alla morte”.
Di
seguito si propone l’intera tesina.
Mattia Racca
I GHETTI A TORINO
Palazzo Passarino in Piazza Carlina e Palazzo Coardi di Carpeneto.
La parola ‘’Ghetto’’ (dal veneziano “gheto”, in origine fonderia, poiché proprio nell’area delle fonderie a Venezia nel 1515 nacque il primo luogo rigorosamente riservato alla locale comunità israelitica) nacque nel XVI secolo per indicare il quartiere cittadino in cui gli Ebrei erano costretti a risiedere. Chiusi su ogni lato, i ghetti erano messi in comunicazione con il resto della città nella quale si trovavano attraverso una o più porte, che venivano chiuse durante la notte, quando scattava per gli Ebrei l’obbligo di non lasciare le proprie case.
La loro costruzione fu simbolica: si voleva infatti mettere in rilievo la differenza tra un cittadino e un Ebreo. Gli Israeliti videro questa segregazione nel ghetto come una sventura, ma in alcuni casi essa apparve anche come un mezzo di sicurezza contro il rancore che alcune persone nutrivano nei loro confronti, oltre che un modo per rimanere fedeli ai loro costumi e alla loro religione. Il fatto che vivessero separati dal resto della popolazione e rinchiusi in un quartiere, però, li rendeva agli occhi degli altri cittadini pericolosi e inaffidabili. Li rendeva DIVERSI. I ghetti vennero edificati in tantissime città. In Italia, il primo, come abbiamo detto, fu costruito a Venezia nel 1515. Ne sorsero parecchi altri successivamente, tra cui quello di Torino. Il primo Ghetto del capoluogo piemontese si trovava anticamente nella zona cittadina compresa tra via Maria Vittoria, via Bogino, via Principe Amedeo e via S. Francesco da Paola. Fin da subito la popolazione ebrea torinese fu costretta ad abitare in un luogo delimitato che aveva il fine di esercitare un perenne controllo. Elia Alamandi fu presumibilmente il primo Ebreo che arrivò a Torino nel 1424 e già dall’anno successivo venne trovato uno spazio in cui le pochissime famiglie ebraiche presenti a quell’epoca potessero risiedere. Per parlare del primo Ghetto però si dovette aspettare fino al 1679. In pochi anni comunque la popolazione ebraica a Torino aumentò notevolmente tanto che, agli inizi del ‘700, fu necessaria la costruzione di un secondo ghetto, situato vicino a piazza Carlo Emanuele II. Questo luogo, all’apparenza sicuro, lo divenne un po’ meno quando la caserma Bergia, che aveva sede nelle vicinanze, diventò il comando della Guardia Repubblicana che si occupava dei rastrellamenti e delle deportazioni in seguito all’emanazione della Carta di Verona del 1943, che faceva degli ebrei italiani un nemico.
Gia dal 1938, però, con l’emanazione delle Leggi Razziali il ghetto antico era divenuto un luogo simbolico per la comunità ebraica, anche se, a causa dell’aumento delle persecuzioni, gli Ebrei iniziarono a spostarsi nuovamente: essi andarono a vivere in prossimità della Sinagoga, nel Nuovo Ghetto, nel quartiere San Salvario. Molti furono i deportati in questo periodo, tra cui Primo Levi, che sarà il principale testimone degli orrori della Shoah.
Palazzo Coardi di Carpeneto in piazza Carlina, Torino.
Il ghetto antico a Torino ancora oggi si distingue per la particolarità delle facciate dei suoi edifici: le case sono continue, presentano 4 piani più un ammezzato. Molto affascinanti sono i cancelli in ferro battuto, che permettevano alle forze dell’ordine di controllare i cortili durante la notte ed erano apribili solamente dall’esterno. Durante la Seconda Guerra Mondiale, i ghetti furono soggetti a due devastanti bombardamenti: il primo avvenne il 13 luglio 1943 e il secondo nemmeno un mese dopo, l’8 agosto 1943. Essi, insieme alla Sinagoga, furono ricostruiti nel dopoguerra. Le vittime della Shoah vennero commemorate da un monumento, situato nell’antico cimitero ebraico.
La comunità ebraica di Torino, la più grande del Piemonte e la terza più numerosa d’Italia, ancora oggi vive nei quartieri del ghetto, ricchi di istituzioni scolastiche e culturali.
Francesca Massimino e Paola Prato
Uno dei portoni dell’ex Ghetto ebraico (via Bogino 17). Fotografia di Mattia Boero, 2010. © MuseoTorino
NOVECENTO
A Torino è presente
la Comunità ebraica più importante del Piemonte, che accoglie circa 900 fedeli,
ed ha assorbito, nel corso degli anni, le Comunità di Asti, Alessandria, Acqui,
Carmagnola, Chieri, Cuneo, Ivrea, Mondovì e Saluzzo.Essa, molto attiva nel
recupero delle proprie radici storiche (ricerche, mostre,restauri) e
nell’educazione (con la Scuola dell'Infanzia e primaria “Colonna e Finzi” e la
Scuola secondaria di 1°grado “Emanuele Artom”), è ormai da anni un punto di riferimento
nella vita culturale della città.
Un po' di storia
Le prime presenze
ebraiche in Piemonte risalgono all’inizio del XV secolo,probabilmente in
conseguenza all’espulsione degli ebrei francesi decretata nel 1394. A Torino
gli ebrei furono ammessi ufficialmente nel 1424. Costretti a vivere per secoli
nei ghetti, solo nel 1848, con re Carlo Alberto, ottennero, come le altre
minoranze religiose, la libertà di culto e il riconoscimento a pieno titolo
della status di cittadino. Fino ad allora, seppur non sottoposti ad espulsioni
o persecuzioni, come avvenne in Spagna,
furono tollerati, ma al tempo stesso considerati non degni di esercitare le
professioni e costretti ad umili mestieri. Con i Principi di Savoia, tuttavia,
gli ebrei assunsero l'immagine di uno straniero, di religione differente, che
poteva o no essere accettato. L'ebreo dunque, se lo desiderava, poteva
risiedere nello Stato grazie ad una serie di leggi emanate in successione da
Amedeo VIII e poi da Emanuele Filiberto . Queste leggi, però, prevedevano che
il permesso di risiedere fosse concesso
dietro pagamento di grosse somme di denaro, e l'autorizzazione, detta
“condotta”, durava solamente dieci anni; trascorsi quest'ultimi occorreva fare
nuova richiesta.
Nel corso del 700
era proibito agli ebrei il possedimento di beni immobili (terre e case), e con
ciò si spiega l'assenza di ebrei contadini; era inoltre loro proibito lo studio
di arti e mestieri, con conseguente proibizione dell'esercizio di varie professioni,
come il fabbro ed il muratore, l'accesso agli studi di ogni genere ed ai titoli
nobiliari, la professione militare ed il matrimonio misto. Durante il XVIII
secolo gli ebrei vivevano di beneficenza ed assistenza: vi erano infatti, nei
ghetti piemontesi, molte organizzazioni di tipo assistenziale, anche se nel contempo
questi ghetti erano “chiusi”, propensi cioè al rifiuto di persone provenienti da
altri territori. Con l'avvento delle idee illuministiche, però, le condizioni
delle comunità ebraiche variarono. In particolare, in seguito al Congresso di
Vienna ed alla Restaurazione, e con la successiva annessione alla Francia nel
1802, gli ebrei furono considerati come effettivi cittadini e furono loro
concesse tutte le libertà.
Una
Comunità viva
Quella di Torino è oggi
una comunità ebraica viva; in effetti si compiono molte attività, come
conferenze, in collaborazione spesso anche con altre istituzioni; è stata istituita inoltre una scuola ebraica, alla quale si iscrivono
anche molti non ebrei, una biblioteca ed una casa di riposo.
Il
calendario ed alcune sue ricorrenze
Nella
visita al centro ebraico di Torino che abbiamo vissuto il 27 novembre, il
presidente della comunità di Torino, l’ing. Beppe Segre, ci ha raccontato non
solo la storia della comunità, ma anche molte delle sue consuetudini. Siccome
gli ebrei contano gli anni dalla creazione del mondo, per esempio, il nostro
2013 corrisponde all'anno ebraico 5774. Ai 12 mesi, inoltre, ne è aggiunto spesso uno “bis”, in quanto il
calendario è sincronizzato con il ciclo lunare e non solare. Abbiamo poi percorso
una carrellata delle principali feste ebraiche:
Hannukkà: è una festività che ricorre
in parallelo al Natale cristiano e si celebra in ricordo della guerra
d'indipendenza ebraica (167) in seguito alla quale il popolo entrò nel tempio
di Gerusalemme. La storia racconta che qui fu accesa una lampada con poco olio,
la cui luce sarebbe dovuta durare pochi minuti, invece si mantenne per otto
giorni. Gli ebrei quindi festeggiano il miracolo del non essere stati abbandonati
da Dio, e non la vittoria della guerra.
Pesach: la pasqua ebraica, durante
la quale è consentito cibarsi esclusivamente di pane azzimo.
Yom
Kippur: è un
giorno di digiuno e preghiera ,celebrato dieci giorni dopo il capodanno
ebraico, per riflettere sulle proprie colpe commesse, in modo da non commetterle
nuovamente nell'anno a venire.
Yom
Teru'à: è
considerato il giorno del suono dello shofàr. In questa ricorrenza si suona
infatti lo shofàr, simbolo dell’eterno richiamo all’uomo perché si rivolga al Signore.
I suoni prodotti dallo strumento sono detti “teki'à”, “shevarìm” e “teru'à”, e
sono emessi diverse volte in note ora brevi, ora lunghe. Una tradizione spiega
che queste note, differenti fra loro, siano emesse in onore dei tre Patriarchi:
Abramo, Isacco e Giacobbe.
Le
due sinagoghe torinesi
A
Torino sono presenti due sinagoghe. La più grande, diventata simbolo della
città, fu costruita da un famoso architetto, Enrico Petiti, nel 1884, e
bombardata nel 1942, mentre la più piccola fu costruita appena 40 anni fa. La
sinagoga superiore: essa risulta molto semplice, con la presenza però di un
pulpito e del matroneo, come nelle più antiche basiliche cristiane. In rispetto
dei canoni ebraici, essa risulta priva di immagini. La sinagoga inferiore: essa
presenta una forma ad anfiteatro, ricavata da locali prima adibiti alla cottura
delle azzime. Le pareti furono lasciate grezze con mattoni a vista, mentre gli
arredi sacri, in stile barocco, provengono dalla Sinagoga di Chieri. La
Sinagoga maggiore è utilizzata soprattutto per le grandi festività, al contrario,
questa è sfruttata quotidianamente per i vari riti giornalieri.
Alcune
curiosità
Nei
luoghi di culto ebraici gli uomini
coprono il capo in segno di rispetto a Dio. Come nelle comunità cristiane più
antiche, uomini e donne, durante i riti, sono separati. Ciò non sta a
significare il predominio dell'uno sull'altra, ha sottolineato Segre, bensì i
differenti ruoli assegnati ad entrambi. Non vi può essere distinzione tra i
sessi, come non vi è tra gli uomini, in quanto tutti discendenti da Adamo. L'Ebraismo
è si incentra sulla collaborazione fra Dio e l'uomo. Esso si basa sullo studio,
la riflessione e la discussione riguardo ai testi sacri.Gli ebrei si
distinguono in Sefarditi (ebrei della Spagna) ed Aschenaziti (ebrei della Germania),
ma la comunità più antica è quella romana. Simbolo universale della religione
ebraica è il candelabro a sette bracci, o Menorah. Esso, forgiato in oro
massiccio, era accolto nel tempio di Gerusalemme, ma, in seguito alla
distruzione di quest'ultimo, scomparve. Oggi è uno presente in tutti i luoghi
di riunione e preghiera. Sono poche le preghiere recitabili individualmente:
esse si recitano infatti in gruppo,con una presenza minima di dieci persone di
un'età non inferiore ai tredici anni. Uno spazio particolare è stato dedicato
alla cucina ebraica, di cui abbiamo anche avuto un assaggio grazie al
ristorante kosher recentemente aperto nei pressi del Centro ebraico. Un panino
al salmone e un dolce alle spezie ci hanno accompagnato, mentre imparavamo che
la religione ebraica permette i piatti a
base di carne, esclusi suini ed equini, ma proibisce per esempio il sangue
degli animali, in quanto simbolo di vita.
Mi
ha colpito, infine, in una vetrina del centro ebraico, un Talleth, anche definito
come scialle di preghiera, un indumento
rituale ebraico che consiste in un telo rettangolare (solitamente in lana,
seta, lino o cotone, ma oggi anche in fibra sintetica) di varie grandezze. Esso
risulta più o meno decorato e dotato obbligatoriamente di frange agli angoli, e
solitamente anche sui due lati più corti. Era di un bel colore azzurro,
finemente decorata e mi è sembrata l’immagine migliore di una comunità fedele
alle proprie origini, orgogliosa del proprio passato, ma anche disponibile a
incontrare la realtà che la circonda.
Sinisi
Aurora
Un episodio della storia ebraica tra la Francia e il cuneese
NELLA NOTTE STRANIERA
TITOLO:
Nella notte straniera
EDITORE:
Nino Aragno Editore
AUTORE:
Alberto Cavaglion
ANNO DI PUBBLICAZIONE: 2012
Alberto Cavaglion vive
ed insegna a Torino, dal Febbraio 2009 è professore a contratto all'Università
di Firenze. Fa parte della redazione delle riviste “ L'indice dei libri del
mese” e “ Mondo contemporaneo”.
Molto
impegnato nel raccontare le vicende riguardanti il genocidio degli Ebrei
durante la Seconda Guerra Mondiale; se avesse scritto durante L'epoca del
Fascismo, sicuramente la censura avrebbe condannato e proibito la lettura delle
sue opere, perché ritenute scomode.
VICENDA:
Seconda Guerra Mondiale; massacro degli Ebrei; campi di sterminio di Borgo San
Dalmazzo ed Auschwitz.
TRAMA:
l'autore ci racconta, in queste pagine, del destino di circa 500 ebrei i quali,
quando nel 1940 la Francia viene invasa dai Nazisti, si rifugiano nel sud del
Paese, a Saint-Martin Vésubie.
La
zona viene ritenuta sicura, perché sotto il controllo della Quarta Armata
Italiana.
I
militari che la compongono non sono disumani con i rifugiati, anzi, in certe
occasioni entrano in contrasto addirittura con i Nazisti, perché mal sopportano
la prepotenza degli stessi e perché non vogliono perdere l'autorità sul
territorio.
Il
periodo della loro permanenza trascorre, nel complesso, sereno: gli Ebrei
vivono in alberghi o ville messe a disposizione e pagati da alcune
organizzazioni.
Dopo
l'8 Settembre, la situazione però precipita, perché i soldati devono rientrare
in Italia e gli Ebrei, speranzosi dopo tutti i mesi trascorsi a contatto con
loro, decidono di seguirli.
Alcuni
valicano il confine passando per il Colle delle Finestre a 2500 metri di
altezza, con i suoi sentieri tortuosi e stretti, i profondi precipizi e con
un'unica luce, un fiammifero che si accende di tanto in tanto.
Altri
raggiungono invece il Colle Ciriegia, con varie pietraie e un ripido pendio
franoso per giungere a Valdieri senza passare per Entracque.
Questo
Mass-Exodus avviene nella notte tra l'8 e il 9 Settembre fino al mezzogiorno
del 13.
I
più giovani e i più forti fecero la traversata in cinque o sei ore, ma molti
passarono anche due o tre notti all'addiaccio.
La
gente ricorda che le vallate erano tutte illuminate dai falò accesi da quella
povera gente che cercava un po' di riposo.
In
Italia, dove pensavano di essere al sicuro, vengono, per la maggior parte,
internati nel campo di Borgo San Dalmazzo e successivamente, nel mese di
Novembre dello stesso anno, deportati in Polonia ad Auschwitz.
Il
libro viene arricchito anche con l'enorme lavoro che Don Raimondo Viale,
parroco di Borgo, e Angelo Donati, importante uomo d'affari, portano avanti per
salvare migliaia di persone.
Si
sottolinea il fatto che, in più occasioni, alcuni funzionari hanno impedito
alla macchina burocratica di andare avanti.
La
soglia è sottilissima, ma, in sostanza, anche se non si disapprovavano
apertamente le teorie razziste, è sufficiente agire perché le stesse non
potessero diventare concrete azioni.
Il
libro non racconta le vicissitudini di qualcuno in particolare, ma ci trasmette
la solidarietà della gente del posto che si adopera con le poche cose che aveva
per soccorrere persone che nemmeno conosceva, delle quali non sapeva nulla, se
non che erano perseguitati per qualcosa che nemmeno si capiva.
Quei
poveri montanari, di cui Caia Roth nelle sue memorie ricorda la calda
cordialità, seppero dar prova di possedere un “cuore vigile”, quello stesso che
mancò a persone ben più colte e ricche, totalmente accecate dall'ideologia
nazi-fascista.
Anni
di propaganda resero gli uomini incapaci di riconoscere nei pretesi “ nemici
dello stato” i loro simili, anche quando si trattava di anziani e bambini.
Nella
mia mente si sono fermate in particolare alcune immagini: quella della famiglia
che attraversa le Alpi spingendo una carrozzina con il figlioletto appena nato,
il papà che porta due valigie sulla schiena e poi, a poco a poco, le getta nel
burrone per caricarsi le figlie sulle spalle, oppure la terribile indecisione
di coloro che, giunti in Italia, devono scegliere tra consegnarsi ai Tedeschi o
riparare sulle montagne.
Oggi,
forse, non succedono più tragedie di questa portata, ma io temo, che se dovesse
accadere un evento simile, la gente dei nostri tempi non sarebbe più così
disposta a prodigarsi per gli altri, semplicemente perché siamo sempre troppo
spaventati dalle conseguenze delle nostre prese di posizione e non abbiamo più
fiducia nel prossimo.
Nel
testo di Cavaglion, la solidarietà appare naturale: non ci sono dubbi sul fatto
che bisogna aiutarsi a vicenda.
Poi
quelle liste, quei nomi, quei cognomi, quelle date di nascita, di morte, di
trasferimento; sono circa 500 le vittime dell'esodo da Saint-Martin Vésubie.
Sono
tante, sembrano già troppe, ma se pensiamo alle sei milioni di vittime della
Shoah, quante pagine potremmo riempire.
Anni
fa ho visitato Dachau.
Era
enorme, con tutte quelle capanne allineate, i settori, le strade, il cancello
con la scritta “Arbeit macht frei”.
Quante
persone hanno vissuto in quei luoghi, sono morte nelle camere a gas o bruciate
nei forni, dove talvolta li facevano entrare addirittura ancora vivi, quanti
hanno sofferto la fame, così tanto da mangiare i propri pidocchi...
Quando
sono uscito ho detto ai miei genitori “ ma davvero è successo questo?”
Lo
sapevo, ma mi sembrava così inverosimile, così spaventoso che per un attimo ho
pensato si trattasse di una bugia.
Primo
Levi ha detto che è necessario ricordare per far sì che tragedie simili non
accadano nuovamente, per non fare gli stessi errori; io vi credo fortemente.
VOI CHE VIVETE SICURI
NELLE VOSTRE TIEPIDE CASE,
VOI CHE TROVATE TORNANDO A SERA
IL CIBO CALDO E VISI AMICI…
MEDITATE CHE QUESTO E’ STATO…
RIPETETELE AI VOSTRI FIGLI.
O VI SI SFACCIA LA CASA,
LA MALATTIA VI IMPEDISCA
I VOSTRI NATI TORCANO IL VISO DA VOI.
PRIMO LEVI
Giorgio Cristofaro
ALBERTO CAVAGLION, AUTORE DI
NELLA NOTTE STRANIERA
NELLA NOTTE STRANIERA
Lungo la strada che ci ha portato alla creazione del blog "Cuore Vigile" ho avuto il piacere di leggere Nella notte straniera di Alberto Cavaglion. Vorrei spendere qualche parola su questo scrittore, che ho saputo apprezzare pagina dopo pagina.
Alberto Cavaglion è un affermato studioso dell'ebraismo italiano cuneese, docente a contratto presso l' Università di Firenze; inoltre lavora presso l'Istituto storico della resistenza e della società contemporanea.
Ho apprezzato come nel suo saggio Nella notte straniera ha saputo descrivere con estrema precisione la migrazione forzata delle famiglie ebree rifugiatesi a St. Martin Vésubie nel 1943 e, dopo l' 8 settembre, il loro passaggio dalla Francia alle nostre vallate tramite il colle Ciriegia e il colle delle Finestre; infine, il successivo rastrellamento e l'internamento nel campo di Borgo San Dalmazzo, da cui furono deportate nel novembre dello stesso anno 349 persone dirette ad Auschwitz, da cui non fecero più ritorno.
Con stile chiaro racconta questi tristi avvenimenti creando un'opera alla portata di tutti.
Occupandosi anche dello studio della storia della resistenza l' autore ha pubblicato nel 2008 La Resistenza spiegata a mia figlia, che ha meritato il premio "Lo Straniero ".
Proprio come sottolinea il titolo, questo saggio è indirizzato ai giovani; infatti - afferma Cavaglion nell'intervista concessa al momento della pubblicazione - " il libro è nato per dare risposte ai giovani, raccontando la volontà di riscatto degli italiani durante la seconda guerra mondiale". *
Con estrema lucidità, come afferma l' autore stesso, vuole entrare dentro la ragione della storia, attribuendo a tutti i protagonisti della resistenza uguale dignità storica.
Ecco che anche in quest' opera emerge l' originalità dell' operazione, che consiste in un racconto il più possibile obiettivo di un periodo storico tra i più discussi della storia italiana recente.
Proprio questo mi è piaciuto di Cavaglion, una scrittura chiara, limpida, ma allo stesso tempo "sudata", documentata e originale.
*link intervista: http://www.terraligure.it/cavaglion/
*link intervista: http://www.terraligure.it/cavaglion/
Giorgia Demichelis
Nella notte straniera: riflessioni
Al termine della guerra con
la Francia nel 1940 inizia l'occupazione italiana ad opera della IV armata di
una piccola striscia di terra francese.
La situazione degli ebrei che
vivono in questa zona è abbastanza inusuale, poiché i soldati italiani cercano
di aiutarli e di nasconderli alle forze naziste che, al contrario, davano loro
la caccia.
Il comportamento di questi
soldati italiani provoca la reazione di Mussolini, che non accetta questa
opposizione.
La vita della comunità degli
ebrei continua stabilmente fino all'8 settembre 1943 quando, con l'armistizio
di Badoglio, viene rotto il patto tra Germania e Italia (che passa dalla parte
degli alleati anglo-americani).
Il nord dell'Italia e il sud
della Francia vengono occupati dai nazisti e la IV armata deve ritirarsi da
Saint Martin Vésubie, località turistica dove gli ebrei avevano deciso di
risiedere per nascondersi dal regime. Gli ebrei che vi si erano stabiliti
decidono di seguire la IV armata attraverso le Alpi per poi stabilirsi a
Valdieri ed Entracque, dove le condizioni di vita tornano ad essere simili a
quelle pacifiche di qualche anno prima.
Anche la popolazione e il
clero della zona si dimostrano ospitali con gli ebrei, ma dopo poco tempo, i
nazisti scoprono la comunità e iniziano le deportazioni verso il centro di
detenzione di Borgo San Dalmazzo.
Don Raimondo Viale, per
essere costantemente informato delle condizioni dei deportati, scrive un
dettagliato diario della parrocchia dove vi sono tutti i nomi degli ebrei che
non faranno più ritorno dai campi di detenzione.
Una volta arrivati a Borgo
San Dalmazzo, venivano infatti mandati ad Auschwitz, dove vi era il vero e
proprio campo di sterminio, dal quale solo pochi riusciranno a fare ritorno.
Mi ha molto colpito il fatto
che Alberto Cavaglion, nella postfazione, afferma di aver scritto quest'opera a
vent’anni “in rivolta contro l'ufficialità scolastica”, poiché una testimonianza sul campo di
detenzione di Borgo San Dalmazzo non sarebbe mai stata accettata all’epoca da
un professore universitario .
Molte delle informazioni
presenti in questo scritto non derivano da documenti ufficiali (che i nazisti
avevano provveduto ad eliminare), bensì da documenti personali come il diario
di Don Viale, utilizzato anche da Nuto Revelli per scrivere Il prete giusto.
Nel libro sono inseriti anche
gli elenchi degli ebrei deportati e da altri documenti storici che aiutano a
comprendere la tragicità dell'olocausto perpetrato dal regime nazista.
Lucciola
Dolori, paure, perdite, delusioni
la vita ne è colma
non si possono schivare,
enormi spazi di vuoto,
lunghi cammini nel buio
e un ricordo che ti faceva sorridere
diventa una lama affilata
che ferisce il tuo cuore.
Improvvisamente ti accorgi di una piccola lucciola
molto distante, è tutto nero,
ma lei brilla.
Inizi a seguirla, vuoi afferrarla
è veloce, raggiungerla è quasi impossibile,
non ti fermi continui a correre
nonostante la stanchezza,
infine è tua.
Ti ha condotto in un luogo illuminato
riesci a ritrovare di nuovo la tua strada.
Si chiama speranza, l'unica emozione
che rende vivi
che nella tragedia riesce
a donarti una piccola gioia
a rialzarti in piedi.
Ma quando hanno perso la speranza?
Quando si sono sentiti morti dentro.
Quando la rassegnazione ha preso le loro anime
e sono state negate loro la libertà, un' identità, una dignità umana.
Quando hanno smesso di arrossire
davanti ad uno sguardo innamorato.
davanti ad uno sguardo innamorato.
Quando hanno perso tutto ciò che amavano,
il freddo ha congelato il loro cuore e il corpo intero.
Quando la fame ha chiuso lo stomaco.
Quando non avevano più la forza per piangere o per ridere.
Michela Macrì
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