OMAGGIO A
MADIBA (NELSON MANDELA)
Proprio
mentre stavamo chiudendo il nostro blog, ci è giunta la
notizia della morte di Nelson Mandela (1918-2013), primo presidente nero
della storia del Sudafrica, che si è battuto tutta la vita per il superamento
dell'apartheid e di ogni forma di prevaricazione di un gruppo umano su un altro. Abbiamo
così deciso di dedicargli questo nostro lavoro e di lui vogliamo riportare
alcune frasi che ci hanno particolarmente colpito.
Subito dopo la condanna all’ergastolo, Mandela pronunciò
questo discorso di dura critica nei confronti del regime di segregazione
presente in Sudafrica:
"Sono pronto a pagare la pena anche se so quanto triste
e disperata sia la situazione per un africano in un carcere di questo paese.
Sono stato in queste prigioni e so quanto forte sia la discriminazione, anche
dietro le mura di una prigione, contro gli africani... In ogni caso queste
considerazioni non distoglieranno me né altri come me dal sentiero che ho
intrapreso. Per gli uomini, la libertà nella propria terra è l'apice delle
proprie aspirazioni. Niente può distogliere loro da questa meta. Più potente
della paura per l'inumana vita della prigione è la rabbia per le terribili
condizioni nelle quali il mio popolo è soggetto fuori dalle prigioni, in questo
paese... non ho dubbi che i posteri si pronunceranno per la mia innocenza e che
i criminali che dovrebbero essere portati di fronte a questa corte sono i
membri del governo".
"Nella mia vita mi sono dedicato alla lotta per il
popolo africano. Ho combattuto contro il dominio dei bianchi e ho combattuto
contro il dominio dei neri. Ho accarezzato l'ideale di una società democratica
e libera in cui tutte le persone vivano insieme in armonia e abbiamo uguali
opportunità. E' un ideale che spero di vivere. Ma, mio signore, se sarà
necessario, è un ideale per cui sono disposto a morire".
Ludovico Revelli e Matteo Peirone
LE LEGGI RAZZIALI NEGLI ANNI TRENTA
Individuato il capro espiatorio, viene il momento di agire. Siamo in Germania nel 1935, più precisamente il 15 settembre a Norimberga ed è qui che il regime di Adolf Hitler proclama le leggi razziali " per la protezione del sangue e dell' onore tedesco". Lo scopo è quello di tutelare la salvaguardia della nazione e la purezza del sangue ariano, razza umana per eccellenza, che gli ebrei, definiti microbi, stanno minacciando. Una teoria già sviluppata dal futuro führer, nel 1925 con la scrittura del MEIN KAMPF, effettivo nucleo dell' ideologia nazista. Nell'opera, Hitler, basandosi su documenti falsi noti come i protocolli dei Savi di Sion, formula principalmente la tesi del "pericolo ebraico", secondo la quale esiste una cospirazione ebraica con l'obiettivo di ottenere la supremazia nel mondo. Il testo descrive il processo con cui egli diventa gradualmente antisemita e militarista, soprattutto durante i suoi anni vissuti a Vienna. Le leggi razziali promulgate da Hitler rispecchiano fedelmente le idee espresse nel Mein Kampf. Si vietano i matrimoni misti, relazioni extraconiugali con gli ebrei che non possono né più avere domestiche ariane né esporre la bandiera nazionale tedesca. Gli studenti e gli insegnanti sono allontanati dalle scuole, principale fonte di integrazione. Chiunque vada contro tali leggi, sarà punito coi lavori forzati. Si aprono i primi LAGER, sul modello di quelli inglesi della prima guerra mondiale.
Per quanto riguarda l'Italia, la situazione è differente; Mussolini si era sempre discostato dalle teorie razziste hitleriane, escludendole dall'ideologia fascista. Con la guerra d' Etiopia del 1935-1936, però, la situazione cambia: con lo sviluppo del fenomeno del madamato, dovuto al fatto che i soldati intraprendevano relazioni con donne somale, contrariamente ai voleri del duce, si rende possibile l'eventuale richiesta di cittadinanza italiana per i figli nati, cosa considerata inaccettabile. Mussolini reagisce creando un' ideologia razzista e, il 17 luglio 1938, viene pubblicato su "LA DIFESA DELLA RAZZA" il " MANIFESTO DEGLI SCIENZIATI RAZZISTI" nel quale si afferma l'esistenza delle razze umane: ve ne sono di grandi e di piccole, ma quella pura è quella italiana, perché meno mescolata. Il duce rende la politica fascista sin dall'inizio razzista scrivendo: «È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l'opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l'indirizzo arianonordico.» (La difesa della razza, 5 agosto 1938) A questo segue tutta una serie di decreti legge speculari a quelli tedeschi dove si sottolinea l'effettiva poca integrazione semita: "GLI EBREI NON APPARTENGONO ALLA RAZZA ITALIANA. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale rimasto [..] Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani. Il Vaticano non contrasta le leggi razziali italiane e "La Civiltà Cattolica", organo ufficiale dei Gesuiti, afferma: «Chi ha presente le tesi del razzismo tedesco, rileverà la notevole differenza di quelle proposte da questo gruppo di studiosi fascisti italiani. Questo confermerebbe che il fascismo italiano non vuol confondersi col nazismo o razzismo tedesco intrinsecamente ed esplicitamente materialistico e anticristiano». Si passa poi alla definizione di ebreo, rendendo l'ebraismo una questione BIOLOGICA. La situazione rimane piuttosto stabile sino all'armistizio di Badoglio dell' 8 settembre; si rompe il patto d'acciaio passando al fronte alleato e Mussolini decade. L'Italia viene invasa e l'ex duce viene soccorso dai nazisti. Con la carta di Verona del 1943, che sancisce la creazione della Repubblica di Salò," Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica". La persecuzione si fa sempre più dura, iniziano i rastrellamenti, le deportazioni.
E' l' inizio della fine.
Simone Bergalla
SPORT E NAZISMO
"Lo sport deve essere un patrimonio di tutti gli uomini e di tutte le classi sociali.” (P. De Coubertin)
Erano passati tre anni dalla presa del potere nazista in Germania, quando Berlino, nell'estate del 1936, ospitò i giochi della XI Olimpiade. Nel “Mein Kampf “ Hitler aveva già accennato allo sport, intendendolo come preparazione non solo fisica, ma anche psicologica. Egli pensava a milioni di corpi allenati che avrebbero potuto trasformarsi nel corso degli anni in un esercito invincibile, destinati a ottenere ovunque successi. Lo sport aveva il compito di esibire la forza e il carattere della razza ariana. Al popolo americano, che nei campi sportivi presentava atleti di ogni razza, si opponeva la disciplinata serietà di una gioventù consapevole ed entusiasta di vincere per la grandezza della propria nazione. Si aprì quindi un problema per gli ebrei che, essendo già stati allontanati dalle associazioni sportive nel 1933, non sapevano se partecipare o no alle Olimpiadi. Se partecipavano, avrebbero fatto prevalere lo spirito olimpico dello sport, che dovrebbe essere comunque al di là della scelta politica; se non partecipavano, avrebbero dato un segnale forte di dissenso rispetto al regime nazista. Hitler fece di tutto per far vedere al mondo non solo dei giochi perfetti e spettacolari, ma anche una Germania che sotto la sua guida doveva sembrare un paese pacifico e tollerante. Durante i giochi scomparve qualsiasi propaganda contro gli ebrei e furono eliminati tutti i cartelli e le scritte discriminatori - per riapparire poi poco dopo. Il governo garantì pubblicamente un libero accesso ai giochi per tutti, anche agli ebrei.
Il divario tra realtà e propaganda si evidenzia però nelle vicende di due atlete: Helene Mayer e Gretel Bergmann, ricordate nella mostra “Sport e nazismo” (organizzato dal Mémorial de la Shoah di Parigi) che abbiamo visitato a Torino al museo Diffuso della Resistenza il 27 Novembre. Nella delegazione olimpica della Germania c'era una "semi-ebrea", la nota schermista Helene Mayer, che riuscì a vincere una medaglia d'argento, partecipando alle Olimpiadi in virtù del suo aspetto da “ariana” e alla sua entusiastica adesione al nazismo. Un’altra partecipante ebrea che si distinse è Gretel Bergmann, che saltò 1.60 mt, al momento record assoluto. La donna avrebbe vinto in tal modo la medaglia d’oro, consegnando così il primato ai tedeschi. Il titolo le venne però annullato: per umiliarla la motivazione fu “prestazioni atletiche insufficienti”. Le sarà riconosciuto solamente 73 anni dopo.
Gretel Bergmann
Riguardo allo sport nel periodo nazista altri due uomini si sono distinti: Max Schmeling e Albert Richter. Il primo era un campione tedesco di pugilato, che decise però di opporsi al regime nazista, disobbedendo in ambito civile e politico, tanto da non iscriversi mai al partito. Viene comunque ricordato come “il più grande sportivo tedesco di tutti i tempi”, perché pur non essendo né un militante antinazista né un resistente nel vero senso della parola, ha sempre mantenuto sia sul ring sia nella vita privata e pubblica un comportamento corretto e responsabile. Richter invece era campione di ciclismo. Si oppose al regime nazista prendendo le difese del suo allenatore, Ernst Berliner, che era di origine ebrea. Ai campionati del mondo di velocità, a Lipsia, indossò la maglia da ciclista con l’aquila imperiale e non quella con la svastica che tutti gli atleti erano chiamati ad indossare. Richter ebbe però una triste sorte: i suoi atti di opposizione lo condussero ad essere torturato e ucciso.
Ho scelto la frase di Pierre De Coubertin per introdurre il mio intervento, perché secondo me rappresenta quello che lo sport dovrebbe essere e che però nel periodo nazista non è riuscito ad essere, ossia patrimonio di tutti gli uomini, TUTTI. L’atteggiamento di Hitler, quindi di tutti i nazisti, dimostrato alle Olimpiadi, rappresentava l’esatto contrario del pensiero di De Coubertin. Basti notare il caso dell’atleta Helen Mayer, che venne sì fatta gareggiare, sebbene ebrea, ma solamente perché il suo fisico assomigliava a quello “ariano” secondo i canoni nazisti. Peggio ancora il comportamento nei confronti della Bergmann, meritevole della medaglia d’oro che però le è stata negata “perché ebrea”. Questo “perché ebrea/o”, sul quale già mi ero soffermata a riflettere leggendo le pagine di Cavaglion ne “La notte straniera”, la trovo un’espressione insensata, priva di motivazione autentica. La Bergmann avrebbe dovuto veder premiata la sua vittoria. Premiata perché meritata, perché sudata, perché ottenuta nonostante lo sguardo distorto dei nazisti.
Linda Cavuoti
L'APARTHEID IN SUDAFRICA
Il termine Apartheid,
ossia "separazione", viene usato per la prima volta a inizio Novecento, ma nel 1948 diviene
in Sudafrica una vera e propria politica di segregazione razziale, attraverso
un sistema di leggi. Vennero presi con essa dei provvedimenti di fortissima
limitazione delle libertà e dei diritti per la “razza nera”, considerata
inferiore, e poi anche contro gli indiani e i pakistani, presenti da fine ‘800
in Sudafrica. Furono istituiti i cosiddetti ghetti con lo scopo di dividere la
popolazione nera dagli altri cittadini. Vennero vietati i matrimoni misti,
limitato il numero dei neri ammessi all’istruzione e ad alcuni settori del
mondo del lavoro e fu proibito l’accesso ad alcune aree urbane o sui mezzi
di trasporto. Nacquero i “bantustan” come territori appositi per la popolazione
di colore, in cui essa veniva non di rado costretta a trasferirsi.
Pochi anni dopo, nel 1956, la politica
dell’Apartheid fu estesa a tutti i cittadini di colore, compresi gli asiatici. Dagli
anni ’60 milioni di neri furono deportati nei ghetti del sud del Paese,
chiamati anche “homeland” e furono privati di ogni diritto politico e civile.
Le ingiustizie avvenivano anche nella vita quotidiana, per esempio nei negozi,
dove c’era l’obbligo di servire prima i clienti bianchi e solo dopo i neri. Per
muoversi nelle zone dei bianchi essi dovevano possedere speciali passaporti, in caso
contrario venivano arrestati. Nelle scuole i bambini neri erano guardati con
superiorità dai bianchi e molte volte messi da parte. In campo lavorativo, la
popolazione nera era sottopagata e sfruttata. Il lavoro più comune per un nero
poteva essere lavorare nelle miniere o nei campi, che richiedevano molti sforzi
fisici e in cui tanti perdevano la vita. Ai tentativi di lotta, agli scioperi e alle manifestazioni di protesta il governo rispose con una forte repressione.
A causa dell’adozione della politica
di segregazione, le pressioni degli altri paesi si fecero sentire nel mondo
dello sport e nel 1980 al Sudafrica fu impedito di partecipare alle olimpiadi.
Dal 1984 la costituzione impediva ai
neri di avere una rappresentanza parlamentare, pur costituendo essi la grande
maggioranza della popolazione: circa l’80% contro il 20% di Afrikaans (eredi
dei colonizzatori olandesi) e di inglesi.
Nel 1994, in seguito all’apertura
mostrata dal presidente De Clerk, che nel 1990 aveva liberato Nelson Mandela e
con lui ricevette nel 1993 il Premio Nobel per la pace, vi furono libere elezioni
e fu eletto presidente della Repubblica proprio “Madiba” (il nome che aveva nel suo clan di appartenenza), capo dell’ ANC
(African National Congress), principale forza di opposizione all’Apartheid nella
Repubblica Sudafricana. Egli aveva già cercato diverse volte in passato di
mettere fine alla politica di segregazione, ma venne imprigionato per un periodo
che durò ben 27 anni.
Nel 1995 la Commissione per la Verità
e la Riconciliazione, fortemente voluta dal nuovo presidente per pacificare la
popolazione senza tacere i crimini compiuti, cominciò la sua azione di lenta
ricostruzione del passato, per garantire a tutti un presente di maggiore
giustizia, malgrado le profonde cicatrici ancora non sanate.
Ogni anno il 27 aprile la popolazione
sudafricana festeggia il giorno delle elezioni di Nelson Mandela, che
rappresenta soprattutto per i neri la festa della Libertà.
Alina Bogzoiu
I GENOCIDI E LE PERSECUZIONI
DEL 1900
Solo negli ultimi anni sta
emergendo la consapevolezza dei tanti genocidi dimenticati del XX secolo. Non
solo il Terzi Reich ha cercato di perseguire in modo criminale il progetto di
una Germania dei tedeschi, ma anche l’élite politica e culturale dell’ex Impero
ottomano ha attuato una politica simile, nell’inseguimento del sogno di una
“Grande Turchia”. Un altro esempio è il genocidio che venne compiuto in Ruanda,
uno dei più sanguinosi episodi del secolo scorso in cui morirono circa un
milione persone in soli cento giorni circa. Anche il Kosovo, la
Birmania , la
Thailandia e molti altri paesi come la
Cina con la
Rivoluzione Culturale hanno intrapreso, e
continuano ancora oggi, delle politiche di persecuzione delle minoranze etniche
che vivono in questi paesi. Il secolo scorso viene infatti definito dagli
studiosi il “secolo dei genocidi”: un secolo di persecuzioni nei confronti di
minoranze etniche e religiose per raggiungere un’unità politica, etnica,
religiosa e culturale del paese.
GENOCIDIO ARMENO
Il primo genocidio del XX secolo fu quello degli armeni in cui morirono circa 1 200 000 persone. Esso si riferisce a due eventi distinti ma legati fra di loro.
Il primo è relativo alla campagna contro gli armeni condotta dal sultano ottomano negli anni 1894 1896. In quegli anni si contavano circa due milioni di armeni: questi erano sostenuti dalla Russia nella loro lotta per l’indipendenza poiché essa aspirava ad indebolire l’Impero ottomano per annettere del territori ed eventualmente appropriarsi di Costantinopoli. Dopo una serie di rivolte armene, la reazione turca fu un pogrom antiarmeno in cui persero la vita 500 000 persone.
Il secondo è collegato alla deportazione ed eliminazione di armeni compiuta dal governo dei Giovani Turchi negli anni 1915-1916. I Giovani Turchi erano gli appartenenti ad un movimento politico dell’inizio del 1900 nell’Impero turco-ottomano, che aveva l’obiettivo di ottenere una monarchia costituzionale. Questi temevano che gli armeni potessero allearsi coi russi, di cui erano nemici. Volevano, inoltre, raggiungere l’unità linguistica, etnica e religiosa: gli armeni costituivano quindi un problema. Nel 1915 battaglioni dell’esercito russo cominciarono a reclutare armeni che in precedenza avevano militato nell’esercito ottomano. Essendo per i Giovani Turchi una minaccia, essi procedettero all’esecuzione immediata di 300 nazionalisti armeni e diedero l’ordine di deportazione del popolo armeno dall’Anatolia, dove abitavano da millenni, verso i deserti della Siria e della Mesopotamia. Il termine “genocidio” è associato proprio al secondo episodio, che viene commemorato dagli armeni il 24 aprile, giorno in cui a Costantinopoli vennero arrestati tutti i notabili armeni della città: la maggior parte di essi venne uccisa. È l’inizio del genocidio: vennero organizzate carovane, gli armeni deportati (“provvisoriamente”, dicevano i turchi). I maschi vennero uccisi subito. Le donne e i bambini vennero deportati e poi massacrati: le cosiddette “marce della morte” coinvolsero 1 200 000 persone che morirono di fame, malattia, sfinimento o furono massacrate dalle milizie turche. Tutte le carovane si incontravano a Aleppo: da li in poi si proseguiva lungo l’Eufrate e infine venivano condotti nei deserti della Siria e della Mesopotamia, dove morivano.
RICONOSCIMENTO DI GENOCIDIO
La maggior parte degli storici tende a considerare le motivazioni addotte dai Giovani Turchi come propaganda, e a sottolinearne il progetto politico mirante alla creazione in Anatolia di uno Stato turco etnicamente omogeneo. Altri studiosi, sostenendo l’inesistenza di un progetto di genocidio, richiamano l’attenzione sul fatto che non tutti i numerosi armeni d’Istanbul furono coinvolti nel massacro e che non fu approntato un piano sistematico di eliminazione paragonabile a quello messo in pratica dai nazisti contro gli ebrei durante la Seconda guerra mondiale.
Il governo turco continua ancora oggi a rifiutare di riconoscere il genocidio ai danni degli armeni ed è questa una delle cause di tensione tra Unione Europea e Turchia. Una recente legge francese punisce con il carcere la negazione del genocidio armeno. Per converso, già da tempo la magistratura turca punisce con l’arresto e la reclusione fino a tre anni il nominare in pubblico l’esistenza del genocidio degli armeni in quanto gesto anti-patriottico. Il governo turco attuale sta comunque favorendo l’apertura al riconoscimento di questa pagina di storia, ma i comunisti, i socialdemocratici del Partito Repubblicano e i nazionalisti si oppongono tenacemente. Va ricordato anche che l’apparente coerenza di tesi da parte della storiografia turca contro l’esistenza del genocidio è dovuta soprattutto al clima di repressione che si respira nel paese. Ad esempio, lo storico turco Taner Akçam, il primo a parlare apertamente di genocidio, viene arrestato nel 1976 e condannato a dieci anni di reclusione per i suoi scritti; l’anno successivo riesce a fuggire e a rifugiarsi in Germania; oggi insegna negli Stati Uniti alla University of Minnesota.
NUMERO DEI MORTI
Il numero di morti esatto è controverso. Le fonti turche tendono a minimizzare la cifra, le armene a gonfiarla. Il numero degli armeni morti nel secondo massacro è ancora più controverso. Fonti turche stimano il numero dei morti in 200 000, mentre quelle armene arrivano a 2 500 000. gli storici stimano che la cifra vari fra i 500 000 e i 2 000 000 di morti, ma il totale di 1 200 000/1 300 000 è quello più diffuso e comunemente accettato.
FILMOGRAFIA: La masseria delle allodole
REGIA: Paolo e Roberto Taviani
ANNO DI PRODUZIONE: 2007
SCENEGGIATURA: tratto dall’omonimo romanzo di Antonia Arslam
La masseria delle allodole è il primo film che affronti direttamente e a viso aperto il genocidio: con un approccio diretto vengono mostrate le fasi del genocidio ed il suo impatto sulla popolazione armena e turca.
Il titolo indica l’idea di sicurezza che lamasseria e il giardino portano in sé: una sicurezza destinata ad essere spazzata via dalla violenza degli uomini turchi, dai massacri degli uomini armeni e dalle “marce della morte” riservate alle donne. La responsabilità di questo fenomeno viene attribuita unicamente ai Giovani Turchi, anche se non tutti vengono presentati come colpevoli dello sterminio: possiamo infatti trovare il fanatico, il collaborazionista entusiasta, l’ufficiale che deve eseguire gli ordini, il dubbioso e l’incredulo… Quello che è davvero importante è che La masseria delle allodole porta al grande pubblico una conoscenza, quanto meno iniziale, di uno degli eventi più drammatici del Novecento, un crimine in passato rimosso troppo spesso da considerazioni politiche e ideologiche.
“Uccidete anche i bambini, altrimenti una volta cresciuti vorranno vendicarsi”
dal film La masseria delle allodole, 2007
GENOCIDIO DEL RUANDA: 1994
“Mi sai elencare i genocidi che sono avvenuti nella storia?” Beh, a questa domanda una persona che ha terminato gli studi da qualche anno vi risponderà quasi sicuramente parlando degli ebrei. Certamente per numero di morti è stato quello più grave, ma nel corso del Novecento ci sono stati altri genocidi. In particolare vorrei parlare di quello avvenuto in Ruanda. Probabilmente è meno conosciuto degli altri per una particolarità: se gli ebrei vennero sterminati in un lasso di tempo abbastanza lungo, questo genocidio durò solamente una novantina di giorni. Precisamente, la sanguinosa battaglia durò da inizio aprile fino alla metà del mese di luglio dello anno (1994). Il numero di vittime è enorme se confrontato con il tempo che durò il tutto, perché si parla di più di mezzo milione di vittime.
ETNIE PRESENTI NEL PAESE
Per capire bene i motivi di questo massacro si deve tornare alla colonizzazione belga nel paese. Qui vi erano infatti tre etnie differenti: i Twa, gli Hutu e i Tutsi. I belgi affidarono il potere a questi ultimi solamente per un fatto estetico: essi infatti erano più alti e snelli degli altri due gruppi. Prima che arrivassero i belgi, i Tutsi si arricchirono molto, a discapito degli altri. Non vi erano delle leggi che impedivano gli incontri tra persone di due gruppi differenti, e anche i matrimoni misti erano accettati. Questa situazione pacifica durò fino all’epoca della colonizzazione, quando i nuovi dominatori attuarono una divisione netta su base razziale tra questi gruppi. Così i Tutsi salirono al potere, mentre gli Hutu erano considerati inferiori. Un ulteriore errore dei belgi fu il fatto che nel 1959 diedero il potere a quelli che prima erano stati derisi e umiliati, i quali sfruttarono l’occasione e cominciarono a uccidere e perseguitare molti Tutsi. Molti di questi trovarono rifugio in Uganda e nei paesi confinanti con il Ruanda.
APRILE-LUGLIO
Come spesso succede, dopo che si accumulano molte tensioni, serve solamente una scintilla e queste esplodono tutte insieme. Questo è quello che è capitato in Ruanda. Qui la scintilla è stato il missile che fu lanciato contro l’aereo su cui viaggiava il presidente ruandese che era di ritorno dall’Uganda. Egli aveva da poco deciso di ridare importanza ai Tutsi all’interno del governo. Ci sono due versioni dei fatti: una dice che siano stati gli Hutu a lanciare il missile, dato che non erano favorevoli al ritorno dei Tutsi; l’altra accusa direttamente proprio i Tutsi che, diffidenti su ciò che fece il presidente e non sicuri di poter mantenere un ruolo importante, commisero questo crimine. Il giorno successivo iniziarono i massacri, sotto gli occhi impotenti dei caschi blu dell’ONU, presto allontanati dal paese insieme a tutti gli stranieri: non si volevano testimoni scomodi, né vittime eccellenti. Il genocidio fu promosso da una radio Hutu che invitava tutti gli estremisti a “seviziare e ad uccidere gli scarafaggi tutsi”. Un fatto particolarmente raccapricciante è che il massacro non avvenne grazie all’uso di bombe o mitragliatrici, ma con un particolare oggetto, il machete. Dopo tre mesi trascorsi tra sangue e paura, ci fu un intervento armato da parte delle forze militari francesi, autorizzate dall’Onu, che comportarono la fine del genocidio e la fuga di circa un milione di Hutu nei paesi vicini.
L’ATTEGGIAMENTO DEL MONDO
Emblematico fu l’atteggiamento dell’ONU che si disinteressò del tutto delle tempestive richieste di intervento inviategli dal comandante delle forze armate dell’ONU: 2500 uomini, ridotti a 500 un mese dopo l’inizio del genocidio in Ruanda. Diversi paesi occidentali mandarono inoltre dei contingenti con l’unico scopo di salvare i propri cittadini: fra questi spiccarono il Belgio e soprattutto la Francia. Quest’ultima non solo non volle fermare i massacri, ma anche fiancheggiò le milizie Hutu. Nel Regina Coeli del 5 maggio 1994 Papa Giovanni Paolo II chiese ai ruandesi la fine del massacro:
“Essi stanno portando il paese verso l’abisso. Tutti dovranno rispondere dei loro crimini davanti alla storia e, anzitutto, davanti a Dio. Basta col sangue!”
Papa Giovanni Paolo II, Regina Coeli, 5 maggio 1994
FILMOGRAFIA: Hotel Ruanda
REGIA: Terry George
ANNO DI PRODUZIONE: 2004
SCENEGGIATURA: basato su una storia vera
Hotel Ruanda è un film ambientato nel 1994 in Ruanda, nel contesto del genocidio ruandese durante il quale gli Hutu sterminarono brutalmente una parte rilevante della popolazione Tutsi. Il film fu girato dieci anni dopo gli avvenimenti narrati e la vicenda si basa sulla storia vera di Paul Rusesabagina, africano di origine Hutu sposato con una donna di etnia Tutsi.
Questo film non vuole polemizzare l’evento del genocidio, bensì parlare alla coscienza degli spettatori grazie alle vicende di Paul: direttore di un hotel (per questo motivo il film è intitolato così), riesce a salvare più di 1200 Tutsi grazie al suo coraggio e al suo altruismo che gli impediscono di veder morire la gente senza far nulla. Hotel Ruanda non edulcora la situazione né fa del protagonista un eroe e un santo: racconta semplicemente una storia che la nostra coscienza e i nostri media hanno cancellato o quantomeno nascosto probabilmente perché “non interessante”.
“Ammazzate tutti quegli insignificanti scarafaggi Tutsi!”
dal film Hotel Ruanda, 2004
RIFLESSIONE
Penso che questo genocidio sia stato uno dei fatti più terribili mai accaduti, perché avvenuto con una violenza e una rabbia tale da uccidere quasi un milione di persone in meno di 100 giorni. Anche le armi utilizzate, i machete, secondo me stanno a significare la violenza, che non risparmiò nemmeno donne e bambini. Penso che il fatto più grave sia che durante tutto questo periodo il mondo non ha fatto assolutamente nulla per evitare questo disastro. Credo invece che bisognerebbe considerare tutte le persone come dei “fratelli”, che devono essere protetti e visti con uguale rispetto, senza differenze di razza, popolo e nazionalità.
I GENOCIDI E LE PERSECUZIONI DEL XXI SECOLO
Molti pensano che il XX secolo sia l’ultimo secolo in cui si siano verificati massacri che hanno portato all’eliminazione sistematica di intere popolazioni e etnie: purtroppo le persecuzioni, soprattutto di carattere religioso, sono attualmente ancora estremamente diffuse. Si stima che in quasi il 90% dei paesi nel periodo 2000-2007 sono stati documentati casi di violenza fisica o deportazione dovuti a mancanza di libertà religiosa. Queste persecuzioni “recenti” sono quindi pervasive e raramente coperte dall’attenzione dei media, che si concentrano sui pochi casi più noti all’opinione pubblica, come la Birmania, la Cina, il Sudan e l’Afghanistan. Le regioni geografiche interessate sono sicuramente il Medio Oriente (dove la situazione è più critica), l’Africa settentrionale e l’Asia meridionale. In particolare Afghanistan, Bangladesh, Nepal, Pakistan, India, Sri Lanka e sopratutto Thailandia hanno registrato elevati livelli di persecuzione. Si tratta di paesi in cui manca la libertà di stampa e diversi gruppi etnici e religiosi vengono privati di diritti e tutele minime, tanto da non poter nemmeno denunciare al mondo persecuzioni e criticità.
LE PERSECUZIONI IN THAILANDIA
L’esercito thailandese ha iniziato ad espellere verso il Laos circa 4 000 persone di etnia Hmong che da circa trent’anni vivevano nel campo profughi di Huay nam Khao. La deportazione avviata il 28 dicembre 2009 era stata decisa a marzo, tramite un accordo stipulato fra Thailandia e Laos nonostante le proteste di numerose organizzazioni internazionali. La Thailandia non riconosce ai profughi lo status di “rifugiati” ma li considera solo migranti economici. Tuttavia, non è stata usata violenza contro i profughi: “trecento Hmong che all’inizio non volevano lasciare il campo hanno accettato di mettere fine alla resistenza dopo molte ore di trattative” spiega Thana Charuvat, incaricato della deportazione. Ai giornalisti non è stato consentito l’accesso al campo.
Dopo la guerra in Vietnam, molti erano fuggiti dal Laos a partire dal 1975, dopo la presa di potere del partito comunista Pathet Lao. Grazie alle forti proteste internazionali contro la deportazione di 153 profughi Hmong il governo thailandese è tornato sulla sua decisione. I mezzi di comunicazione thailandesi avevano già dato notizia della deportazione quando il governo ha reagito alle proteste dell’ Unione Europea e dell’Alto Commissariato per i Profughi dell’ONU e ha bloccato all’ultimo momento la deportazione dei profughi. Parecchie donne e bambini erano già stati caricati a forza in autobus, mentre gli uomini si erano barricati nelle loror celle e minacciavano il suicidio. Le forze di sicurezza avevano tentato di rompere la resistenza gettando gas narcotici nelle celle.
LE RICHIESTE DI AIUTO ALL’ONU
Non appena la referente per i Hmong dell’Associazione per i Popoli Minacciati (APM) Rebecca Sommer ha ricevuto le richieste di aiuto dei testimoni si è rivolta all’UE e all’Alto Commissariato per i Profughi dell’ONU e Nazioni Unite chiedendo un intervento immediato. Le conseguenti proteste presso il governo thailandese sono riuscite a fermare la deportazione ed è stato possibile impedire l’espulsione. L’APM esprime tutti il suo sollievo per l’annullamento del rimpatrio nel Los dove i profughi avrebbero rischiato la vita. Resta lo scandalo per il trattamento che la Thailandia ha riservato ai profughi che hanno cercato accoglienza stremati e affamati, dopo essere riusciti a fuggire dal Laos e dopo aver subito le peggiori violenze. L’APM teme che sia solo questione di tempo finché il governo thailandese tenti nuovamente di liberarsi dei profughi rimpatriandoli forzatamente. Pochi giorni prima del Natale 2006 il Laos e la Thailandia si erano accordati sul rimpatrio di 6 500 profughi Hmong, attualmente in Thailandia. Il 29 gennaio 2007 la sorte del rimpatrio forzato era toccata a un gruppo di sedici profughi, provocando la decisa condanna di Louise Arbour, Alta Commissaria per i Profughi dell’ONU.
Pubblicazione: 29-12-2009
STAMPA, NAZIONALE, pag.15
Sezione: Estero
Autore: E ST
PROTESTE INTERNAZIONALI IN DIFESA DEI HMON
La Thailandia deporta la minoranza del Laos
BANGKOK Con un'operazione criticata da Ue, Onu, Usa e diversi governi, l'esercito thailandese ha iniziato ad espellere verso il Laos circa quattromila persone di etnia Hmong che da 30 anni vivevano nel campo profughi di Huay nam Khao, 300 km a nord di Bangkok. Secondo il colonnello Thana Charuvat, incaricato della deportazione, non e' stata usata violenza contro i profughi. Conosciuti come gli «alleati dimenticati» dell'esercito americano, alcuni Hmong avevano appoggiato le truppe Usa durante la guerra in Vietnam. \
da La Stampa, 29/12/2009
LA GUERRA IN KOSOVO
Il Kosovo era una provincia autonoma i cui abitanti erano in maggioranza albanesi. Negli anni Ottanta, con il rinascere e il crescere di vari nazionalismi, l'insofferenza etnica della popolazione albanese in Kosovo verso la federazione Jugoslavia aveva cominciato a sfumare dalla rivendicazione autonomista a quella indipendentista. Il conflitto precipitò nel 1989, quando il governo serbo guidato da Slobodan Milosevic revocò l'autonomia della provincia risalente alla costituzione della Repubblica jugoslava di Tito: venne anche revocato lo status allo stesso modo goduto dalla lingua albanese-kossovara e il serbo-croato divenne la lingua ufficiale in Kosovo. Dal 1989 al 1995 la maggioranza della popolazione albanese del Kosovo mise in atto una campagna di resistenza non violenta sotto la guida del partito LDK. Dopo la fine della guerra in Bosnia ed Erzegovina, tra i kosovari, che erano in maggioranza di religione musulmana, nacquero e si rafforzarono forze armate guidate da veterani di quella guerra con intenti indipendentisti. La guerra del Kosovo si può dividere in due fasi di tempo distinte.
Tra il 1996 e il 1999 furono i separatisti albanesi contro le postazioni militari e le entità statali: la conseguenza fu una repressione sempre più dura da parte della polizia e dalle forze paramilitari guidate da estremisti serbi.
Nel 1999 ci fu l'intervento della NATO contro la serbia. Per tutto il 1998, mentre la guerra sul terreno si faceva via via più pesante e sanguinosa, la NATO adottò una politica di dissuasione e minaccia contro il governo della Repubblica federale jugoslava. Esercitando forti pressioni, l'Alleanza atlantica iniziò una serie di negoziati che si conclusero positivamente con la firma dei resistenti serbi di un documento che garantiva formalmente l'indipendenza. Questo fu possibile anche grazie alle pressioni degli USA, che godevano di grande prestigio presso la Serbia, e alla politica di sostegno della delegazione kosovara. Tuttavia, la delegazione serba poco tempo dopo mise in discussione gli esiti politici della trattativa, dichiarando che non accettava più quella che considerava una indipendenza autonoma. Le basi italiane della NATO iniziarono cosi ad attaccare il Kosovo: la guerra si tenne solamente a livello aereo, senza la presenza di eserciti sul suolo, ma l'esito fu tragico: migliaia di morti, sia serbi sia albanesi, sia civili sia militari.
Nel corso del conflitto ci sono stati diversi gravi episodi, come la caduta di un missile che erroneamente finì in Bulgaria; un altro attacco aereo colpì un convoglio di civili in fuga, facendo una strage. L'esercito serbo e truppe irregolari facenti capo a movimenti ultranazionalisti serbi compirono diverse esazioni sulla popolazione per provocarne la fuga e creare quello stato di fatto necessario alla realizzazione dell'obiettivo della spartizione. L'operazione militare, chiamata “ferro di cavallo”, sarebbe stata preparata prima ancora delle trattative della NATO, anche se prove definitive non sono state fornite o la stampa internazionale non ne ha mai dato un resoconto esauriente. In ogni caso, l'esercito serbo sotto attacco NATO aumentò progressivamente la pressione sulla popolazione kosovara, che iniziò a rifugiarsi in Macedonia e Albania.
LE CONSEGUENZE DELLA GUERRA: L'ODIO SECOLARE TRA LE DUE ETNIE
Il conflitto armato ha portato a molte perdite di vite umane, distruzione e danni economici che pesano ancora sulla vita sociale del paese. Ha inoltre riacceso l'odio etnico secolare tra i due popoli che pretendevano il controllo del paese.
Le forze paramilitari serbe uccisero oltre 13 000 civili kosovari, mentre i caduti tra i combattenti albanesi si aggirano intorno a 3 000/6 000. tra i serbi invece le stime variano da 2 300 a 3 000 persone uccise nel conflitto, soprattutto durante l'attacco aereo della NATO. Inoltre circa 20 000 donne albanesi sono state stuprate dai militari serbi. Sono state distrutte molte abitazioni appartenenti ad albanesi, scuole, istituzioni, luoghi di intrattenimento e molto altro. Gli albanesi sopravvissuti dovettero quindi abbandonare la regione, rifugiandosi nei paesi limitrofi.
Ma al ritorno dei rifugiati albanesi, cominciò un nuovo esodo, quello serbo: migliaia di cittadini di etnia non albanese (serbi, montenegrini, gitani, croati) fuggirono dal Kosovo temendo e subendo rappresaglie albanesi e si creò uno stato di fatto che perdura tuttora: i serbi superstiti trincerati in gran parte nella Metochia, la parte serba del Kosovo, e gli albanesi nel Kosovo propriamente detto, impegnati a rendere “etnicamente pura” la provincia. Dopo la guerra infatti numerose chiese ortodosse vennero distrutte e non uno dei 40 000 residentidi etnia serba ha potuto farvi ritorno.
Milosevic fu arrestato il 1 aprile 2001 su mandato del tribunale internazionale dell'Aja come imputato per crimini contro l'umanità. Il processo venne tuttavia interrotto per la morte dello stesso Milosevic l'11 marzo 2006 per presunto arresto cardiaco. Nel 2006 sono iniziati a Vienna nuovi colloqui bilaterali tra il governo serbo e quello kosovaro per la definizione finale dello status dell'area kosovara.
LA PULIZIA ETNICA DELLA BIRMANIA
Birmania, antico crocevia di scambi commerciali e popoli, è ora un territorio di conflitti tra etnie: da una parte i Rohingya, musulmani, e dell'altra i Rakhine, buddisti, che vedono i Rohingya come invasori; essi infatti sono spaventati dalla crescita demografica dei musulmani e temono che questi ultimi vogliano “ingoiare il loro popolo”.
Pubblicazione: 3/12/2012
STAMPA, NAZIONALE
Sezione: Estero
Autore: Alessandro Ursic
L'orrore della pulizia etnica nella Birmania della rinascita
Viaggio a Sittwe, dove anche i monaci buddisti danno la caccia ai musulmani
Se non fosse per quei vuoti nella successione di case, Sittwe parrebbe una tipica città birmana dal decadente fascino coloniale. Ma quegli interi isolati rasi al suolo sono il prezzo dell’apparente quiete attuale: una selvaggia guerra urbana che lo scorso giugno ha svuotato la città dei musulmani di etnia Rohingya, se non si contano i 7 mila confinati in un ghetto circondato dal filo spinato. Altri 100 mila vivono in polverosi campi di sfollati alla periferia di Sittwe e nel resto di questa fetta occidentale di Birmania, in condizioni di totale indigenza. E per i buddisti dovrebbero andarsene pure da lì.
“Cercano di invadere la nostra terra e di ingoiarci come popolo”, spiega U Phoe Minn, un alto esponente del partito nazionalista Rndp, che nello stato Rakhine difende gli interessi dei buddisti dell’omonima etnia. Ma sono parole ripetute da monaci, giovani teste calde, donne e anziani: si sentono i padroni originari di questa striscia di territorio, e sono terrorizzati dalla crescita demografica dei “musulmani bengalesi”, come chiamano gli almeno 800 mila Rohingya. Una minoranza apolide e discriminata sistematicamente: non possono spostarsi e hanno bisogno di un’autorizzazione per sposarsi e fare figli.
Accumulatosi per anni, l’odio è divampato lo scorso giugno dopo l’omicidio con stupro di una ragazza Rakhine. Dieci musulmani totalmente estranei furono massacrati per rappresaglia. In pochi giorni le violenze si estesero, coinvolgendo la stessa Sittwe. Migliaia di case furono date alle fiamme, in scontri a colpi di bastoni e machete; solo l’intervento dell’esercito birmano riportò la calma. Ma a ottobre la violenza è riesplosa, in zone non coinvolte a giugno. Ufficialmente il bilancio complessivo è di 167 morti; secondo molti, una cifra da moltiplicare almeno per tre.
All’inizio si parlava dei “peggiori scontri inter-etnici da settant’anni”; col tempo si è capito che le vittime sono in larga maggioranza Rohingya, e che i raid dei Rakhine erano troppo organizzati per essere spontanei. La definizione di “pulizia etnica” è sempre più accettata. “Nella folla che ha distrutto la mia casa c’erano anche poliziotti e monaci”, racconta Aye Maung, un ragazzo musulmano che ora vive da parenti nel ghetto di Aung Mingalar. Con gli ingressi sbarrati dai soldati, ufficialmente a protezione dei residenti, il quartiere è ormai una prigione a cielo aperto a poche centinaia di metri dal lungomare di Sittwe.
Stanno ancora peggio i Rohingya dei campi di sfollati, in file di tende piantate nella sabbia e con due razioni di riso al giorno fornite dalle agenzie Onu. Numerosi bambini mostrano segni di grave malnutrizione, con pance gonfie che ricordano le carestie africane. Nugoli di mosche ronzano attorno alle latrine lerce, e l’assistenza sanitaria è minima: le ong lamentano minacce da parte di estremisti Rakhine. “Non ho mai incontrato un tale livello di intolleranza”, ha dichiarato un responsabile di “Medici senza frontiere”. Anche i buddisti hanno i loro sfollati, che però vivono in condizioni migliori grazie al sostegno delle autorità locali.
La mancanza di una storia condivisa fa sì che l’odio continui a bruciare sotto la cenere degli ultimi mesi. Questa terra era per secoli un crocevia di scambi commerciali e popoli, con una presenza musulmana minima ma influente. I Rakhine idealizzano però ancora oggi il loro antico regno, e ricordano con dolore l’invasione dei birmani nel 1784. I semi del conflitto odierno furono sparsi quarant’anni dopo con l’arrivo degli inglesi, che incoraggiarono l’immigrazione dei bengalesi dalla contigua regione di Chittagong. L’indipendenza birmana fece nascere una nuova consapevolezza dell’identità Rohingya, contribuendo al vittimismo e alla sindrome di accerchiamento che imperano tuttora tra i Rakhine. “Continuano ad arrivare dal Bangladesh e fanno più figli, da diverse mogli”, spiega un rispettato monaco di Sittwe.
Ogni comunità ha spazio solo per la sua verità, spesso con credenze fuori da ogni logica. Gli incendi appiccati a migliaia di case Rohingya? Sono gli stessi musulmani ad averle date alle fiamme per richiamare l’attenzione del mondo, ti dicono i Rakhine. E dall’altra parte, trovare un Rohingya che ammetta di aver distrutto le abitazioni dei buddisti è impossibile: “E’ il vento che ha portato il fuoco delle nostre case verso le loro”, sostiene Aye Maung, il ragazzo del ghetto. Nel frattempo, l’odio coinvolge ormai anche gruppi etnici musulmani riconosciuti legalmente. Il termine dispregiativo “kalar” - come dire “terrone” a un italiano del Sud - viene usato persino dalla stampa nazionale.
Tale clima è una macchia sull’immagine della “nuova Birmania” - a maggioranza buddista - appena uscita dalla dittatura militare. L’ex generale Thein Sein, che mesi fa ha proposto una deportazione di massa dei Rohingya, si è rilanciato nel ruolo di difensore della patria. Persino Aung San Suu Kyi ha pronunciato solo poche parole ambigue. Chi ha esortato la società birmana ad accettare i Rohingya è Barack Obama, nel suo recente discorso all’università di Yangon; nessun birmano ha gradito quel passaggio.
La pressione internazionale stenta però a dare frutti. Thein Sein, forse per prendere tempo, ha appena annunciato di “voler considerare” l’ipotesi della cittadinanza ai Rohingya. Paradossalmente, è un’idea che trova favorevoli diversi Rakhine: almeno così la presenza musulmana sarebbe diluita nel resto del Paese, evitando il sorpasso demografico su questa faglia sismica tra Buddha e Maometto. Ma per i 100 mila Rohingya costretti “temporaneamente” nei campi di sfollati, una lunga permanenza sembra una prospettiva realistica. E il dramma è che se la violenza dovesse riesplodere, su quella sabbia c’è posto per nuove tende.
da La Stampa, 03/12/2012
Arianna Mellano, Cristina Barbero, Fabrizio Fino, Giorgia Scapicchio, Giulia Barale.
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